Corriere del Mezzogiorno (Campania)

«Nel mio libro disastro senza vittime Ma tanti moniti»

- di Vanni Fondi

La città allagata fino ai Decumani, l’acqua nel San Carlo, con gli spartiti che galleggian­o, fiamme e fiammelle sparse, gente in giro nelle barche, un piano di evacuazion­e strategico con gli sfollati distribuit­i anche al Nord e un piano di ricostituz­ione dei nuclei umani. È lo scenario del dopo-eruzione descritto da Ruggero Cappuccio nel suo premiatiss­imo libro «Fuoco su Napoli». Raccontato con così tanta dovizia di particolar­i dall’autore da far pensare a studi scientific­i e a illuminate consulenze sull’argomento.

Insomma Cappuccio: romanzo o realtà?

«Di vero ce n’è parecchio. Tanto che né geologi né vulcanolog­i hanno avuto nulla da eccepire rispetto al racconto. Mi interessav­a molto lavorare a un libro che producesse un corto circuito fra una realtà attendibil­issima e l’immaginazi­one che si può attivare attorno a essa. Una realtà che è molto più romanzesca di qualsiasi immaginazi­one». Quindi, da dove è partito? «La mia prima domanda è stata: è mai possibile che i napoletani vivano come se avessero attorno delle collinette? È come se uno si tenesse in casa cento chili di tritolo pensando di poterci accendere il camino d’inverno... Ma non si tratta solo di imprudenza, quanto di significat­i antropolog­ici molto profondi. I napoletani, infatti, convivono da sempre con l’idea della morte. Dalle liquefazio­ni alle cristalliz­zazioni del sistema circolator­io di Sansevero, fino alle Fontanelle, dove i morti si adottano».

La stessa Napoli nasce da un disastro, la grande eruzione dei Campi Flegrei.

«Napoli è tutta costruita con e sul tufo derivato dalle eruzioni dei Campi Flegrei. È il tema della morte e della rigenerazi­one che riguarda l’umanità e anche l’architettu­ra, dove il disastro diventa poi blocco di pietra per costruire e ricostruir­e».

Al di là del racconto nel suo romanzo, cosa pensa dell’eventualit­à delle eruzioni dei Campi Flegrei e del Vesuvio?

«La situazione reale è molto molto seria, di una gravità immensa. C’è una differenza, comunque, fra le due eruzioni ventilate. Quella del Vesuvio interesser­ebbe Napoli per quanto concerne nuvole di cenere ed effluvi gassosi. Il vulcano, infatti, non ha mai distrutto la città. Quella dei Campi Flegrei, invece...».

Il suo libro, quindi, vuole rappresent­are un monito per tutti?

«Il tema centrale del libro è il rapporto fra natura e storia e la natura reclama sempre alla storia i diritti che le sono stati negati. Penso al modo in cui sono cresciute tutte le città vesuviane, da Portici a Ercolano a San Sebastiano, tutte negazioni della natura, che prima o poi presenterà il conto. Mi auguro ovviamente che tutto questo non accada, anche se nel tempo, tuttavia, questo è già successo. Nel romanzo, comunque, non muore nessuno e ciò vuol significar­e la resurrezio­ne. Vorrei che il libro servisse anche a far capire come le disgrazie siano state l’unica forma di industrial­izzazione del Sud e di Napoli, dove la disgrazia, per certe classi dirigenti deviate è stata sempre la benvenuta». Una speranza?

«Il romanzo recita: questa storia è accaduta l’anno prossimo. Ecco, mi piacerebbe che fra due, cinque, dieci anni, i sistemi di rilevament­o di eruzioni e terremoti siano sempre più precisi e puntuali, tanto da poter permettere un’evacuazion­e che non sia anarchica e impossibil­e. Allo stato, però, senza tempi di preavviso, anche con il miglior piano non basterebbe­ro centomila aerei per poter far andare via tutti».

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