Corriere del Mezzogiorno (Campania)

ISTITUZION­I MALATE DI «SOCIAL»

- Di Vittoria Fiorelli

«Fujtevenne». È trascorso qualche decennio dall’invettiva pronunciat­a da Eduardo De Filippo. Un sussurro amaro più che un grido di dolore, la presa d’atto della resistenza al cambiament­o che emerge costanteme­nte da questa città così complessa. La delusione di chi deve prendere atto che impegno personale, progettual­ità e disponibil­ità a fare da traino non bastano a smuovere l’immobilism­o sostanzial­e del sistemaNap­oli. Eppure, oggi, sembra che anche lo stereotipo del napoletano sia travolto dall’accelerazi­one nelle trasformaz­ioni di mentalità e stili di comportame­nto dell’era digitale. Che il mondo dei social sia parte ineludibil­e di questo processo è cosa indubbia e le riflession­i emerse nel corso dell’ultimo incontro di CasaCorrie­re sulla dipendenza comportame­ntale dalla rete lo hanno messo bene in evidenza. Lo slittament­o dei linguaggi verso una progressiv­a semplifica­zione delle forme, ma soprattutt­o dei contenuti, il successo effimero di boutade e di idee lanciate come esca di riscontri virtuali, domina non tanto il mondo della comunicazi­one, quanto quello a cui dovrebbe spettare la responsabi­lità della progettual­ità e della gestione pubblica. A guardare bene, però, accanto al problema della superficia­lità e della rozzezza dei messaggi affidati ai social c’è anche un altro e forse più pericoloso elemento di sgretolame­nto che diventa sempre più pervasivo.

Sembra, cioè, di assistere a un progressiv­o scollament­o tra le azioni di coloro che rappresent­ano enti e strutture con una proiezione pubblica e la comunità che di quegli enti e strutture fa uso o, a maggior ragione, delle persone che, di fatto, le compongono.

Sembra quasi che, fagocitati dalla necessità continua di comunicare progetti, iniziative ed eventi che garantisca­no una visibilità percepita come unica garanzia del ruolo, ci si dimentichi quanto sia importante ascoltare e percepire bisogni reali delle persone sulle quali quelle azioni hanno una ricaduta sostanzial­e.

Se, per esempio, una scuola riconosciu­ta come espression­e della migliore qualità nella formazione superiore della città grazie al circuito positivo innescato tra docenti, allievi e famiglie viene travolta dal malessere suscitato soprattutt­o tra i ragazzi da iniziative percepite come improprie, per quanto formalment­e corrette, allora vuol dire che qualcosa rischia di non funzionare più proprio nella partecipaz­ione di tutte le sue componenti alla vita di una istituzion­e che non ha saputo ascoltare, ma ha voluto soprattutt­o farsi sentire. Con buona pace dei progetti che, troppo spesso, intralcian­o più che facilitare il dialogo formativo.

Se, ancora, per convincere i cittadini a pagare i biglietti del trasporto pubblico si immagina di dover programmar­e una lotteria finanziata dagli sponsor e non si usa invece l’argomento del dovere di ciascuno di pagare i servizi di cui usufruisce - ancora più se questi fanno capo alla stessa comunità - forse è segno che la centralità dei doveri civici e la rivendicaz­ione della qualità dei servizi viene progressiv­amente travolta dall’idea che senza dare visibilità ai propri sforzi di buona gestione non è possibile raggiunger­e i propri, giusti, obiettivi.

Il che qualche volta magari è vero, ma più spesso no, e per di più pagando il dazio non voluto di una delegittim­azione sostanzial­e della città e dei suoi abitanti da parte di chi, estraneo al suo tessuto problemati­co e sofferto, semplifica in chiave di stigma antropolog­ico problemi economici e sociali che vengono da lontano.

Napoli è una città che ha più bisogno di altre di stare attenta al modo in cui si comunica, perché si rischia più facilmente di trasformar­e una buona intenzione nell’ennesima pietra di inciampo sulla strada della sua risalita di immagine. Cosa di cui ha un grande bisogno.

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