Corriere del Mezzogiorno (Campania)
ISTITUZIONI MALATE DI «SOCIAL»
«Fujtevenne». È trascorso qualche decennio dall’invettiva pronunciata da Eduardo De Filippo. Un sussurro amaro più che un grido di dolore, la presa d’atto della resistenza al cambiamento che emerge costantemente da questa città così complessa. La delusione di chi deve prendere atto che impegno personale, progettualità e disponibilità a fare da traino non bastano a smuovere l’immobilismo sostanziale del sistemaNapoli. Eppure, oggi, sembra che anche lo stereotipo del napoletano sia travolto dall’accelerazione nelle trasformazioni di mentalità e stili di comportamento dell’era digitale. Che il mondo dei social sia parte ineludibile di questo processo è cosa indubbia e le riflessioni emerse nel corso dell’ultimo incontro di CasaCorriere sulla dipendenza comportamentale dalla rete lo hanno messo bene in evidenza. Lo slittamento dei linguaggi verso una progressiva semplificazione delle forme, ma soprattutto dei contenuti, il successo effimero di boutade e di idee lanciate come esca di riscontri virtuali, domina non tanto il mondo della comunicazione, quanto quello a cui dovrebbe spettare la responsabilità della progettualità e della gestione pubblica. A guardare bene, però, accanto al problema della superficialità e della rozzezza dei messaggi affidati ai social c’è anche un altro e forse più pericoloso elemento di sgretolamento che diventa sempre più pervasivo.
Sembra, cioè, di assistere a un progressivo scollamento tra le azioni di coloro che rappresentano enti e strutture con una proiezione pubblica e la comunità che di quegli enti e strutture fa uso o, a maggior ragione, delle persone che, di fatto, le compongono.
Sembra quasi che, fagocitati dalla necessità continua di comunicare progetti, iniziative ed eventi che garantiscano una visibilità percepita come unica garanzia del ruolo, ci si dimentichi quanto sia importante ascoltare e percepire bisogni reali delle persone sulle quali quelle azioni hanno una ricaduta sostanziale.
Se, per esempio, una scuola riconosciuta come espressione della migliore qualità nella formazione superiore della città grazie al circuito positivo innescato tra docenti, allievi e famiglie viene travolta dal malessere suscitato soprattutto tra i ragazzi da iniziative percepite come improprie, per quanto formalmente corrette, allora vuol dire che qualcosa rischia di non funzionare più proprio nella partecipazione di tutte le sue componenti alla vita di una istituzione che non ha saputo ascoltare, ma ha voluto soprattutto farsi sentire. Con buona pace dei progetti che, troppo spesso, intralciano più che facilitare il dialogo formativo.
Se, ancora, per convincere i cittadini a pagare i biglietti del trasporto pubblico si immagina di dover programmare una lotteria finanziata dagli sponsor e non si usa invece l’argomento del dovere di ciascuno di pagare i servizi di cui usufruisce - ancora più se questi fanno capo alla stessa comunità - forse è segno che la centralità dei doveri civici e la rivendicazione della qualità dei servizi viene progressivamente travolta dall’idea che senza dare visibilità ai propri sforzi di buona gestione non è possibile raggiungere i propri, giusti, obiettivi.
Il che qualche volta magari è vero, ma più spesso no, e per di più pagando il dazio non voluto di una delegittimazione sostanziale della città e dei suoi abitanti da parte di chi, estraneo al suo tessuto problematico e sofferto, semplifica in chiave di stigma antropologico problemi economici e sociali che vengono da lontano.
Napoli è una città che ha più bisogno di altre di stare attenta al modo in cui si comunica, perché si rischia più facilmente di trasformare una buona intenzione nell’ennesima pietra di inciampo sulla strada della sua risalita di immagine. Cosa di cui ha un grande bisogno.