Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La tragedia di Rita e dei suoi figli Il mare ancora non bagna Napoli
Se non fosse finita com’è finita, della vita di Rita non avremmo saputo nulla. Perfino i suoi vicini di casa ne sapevano poco o niente. In una città come Napoli dove, per vocazione e prossimità, la gente del quartiere conosce vita morte e miracoli di tutti, pochi sapevano di lei e dei suoi due figli. Quello che si intuiva era che la vita non era stata per niente tenera con lei. Un matrimonio finito male, un marito sparito chissà dove e lei che si carica il destino sulle spalle e continua da sola, unico punto di riferimento dei suoi due figli, grandi e problematici: Francesca, 36 anni, colpita da una grave patologia che le impediva di deambulare e Antonio, di due anni più giovane, psichicamente instabile.
Che aveva sempre vissuto quasi da recluso, incapace com’è di relazionarsi con gli altri senza farsi prendere dal panico e urlare. Nessuno avrebbe saputo niente di loro se una settimana fa, alle 11,30, Antonio non avesse cosparso il pavimento della casa di alcol, gli avesse dato fuoco e non avesse aperto la bombola del gas, causando un’esplosione che ha ucciso sul colpo sua madre e ferito gravemente lui e sua sorella.
Il botto è stato così violento che nei vicoli dei Quartieri Spagnoli molti hanno pensato al terremoto. E invece era Antonio che aveva pensato di chiudere la faccenda così, in un rogo, una ribellione estrema contro una vita di stenti e dolore che avrebbe potuto causare il crollo dello stabile, o un incendio difficile da domare, in quei vicoli stretti e bui, rifugio per disperati dallo stesso giorno della loro costruzione.
L’esplosione ha portato a galla una storia di disperazione dal fondo limaccioso del quartiere. Rita aveva perso il lavoro di badante. Non pagava più l’affitto e le utenze. L’avevano vista rovistare nei cassonetti vicino alle paninoteche di via Toledo, alla ricerca di qualche panino consumato a metà, qualche scarto da portare a casa.
Ormai usciva solo di notte, per non farsi vedere: troppo dignitosa per elemosinare, per stendere la mano, come Umberto D, il capolavoro di Vittorio De Sica, manifesto del neo realismo su quel periodo di miseria e speranza che furono gli anni del Dopoguerra nel nostro Paese.
Neppure i servizi sociali ne sapevano niente. Non c’era stata alcuna segnalazione. Eppure Rita e i suoi figli stavano per essere sfrattati. L’ufficiale giudiziario aveva concesso loro una proroga, ma ormai era questione di giorni.
«Noi da qua non ce ne andiamo. Se ci cacciano, faccio saltare tutto», aveva giurato Antonio. Ma chi volete che dia peso alle minacce di un ragazzo instabile? E poi, come si dice, ognuno tiene i guai suoi. In quei vicoli sono in tanti a vivere ancora negli anni Cinquanta. Ogni anno a Napoli vengono eseguiti duemila sfratti esecutivi, su una richiesta che supera gli ottomila. Vale a dire uno sfratto ogni trecento famiglie, il 25% in più del dato nazionale.
Gli esperti mettono in relazione il fenomeno con l’aumento dei B&B che da qualche anno si registra in città, un fenomeno legato alla crescita delle presenze turistiche, un’industria dell’accoglienza che è in grande sviluppo, ma si accompagna inevitabilmente all’aumento dei canoni di locazione e al conseguente aumento di richieste di sfratto per morosità.E così, come sempre, Napoli è costretta all’eterna dannazione di restare sospesa tra miseria e nobiltà, tra luce e ombra, tra magnificenza e degrado. Una città prigioniera del suo destino ineluttabile. L’altro giorno il titolare di un sushi bar all’aeroporto di Capodichino ha ritrovato la borsetta di una cliente che aveva mangiato nel suo locale prima di imbarcarsi sul volo che la riportava a casa, in Asia. Quando l’uomo ha aperto la borsetta ha trovato un piccolo tesoro: quasi tredicimila euro. Glieli ha restituiti senza pensarci sopra neppure un attimo.
La nobiltà di certi gesti e il degrado di certi vicoli sono elementi comuni di un’unica narrazione e della stessa dannazione. In quella magnifica raccolta di racconti che è «Il mare non bagna Napoli», di Anna Maria Ortese, ce n’è uno particolarmente toccante. Si intitola «Un paio di occhiali». Racconta la storia di una bambina che vive in un vicolo simile a quello dove vivevano Rita e i suoi due figli. La bambina è quasi cieca a causa di una grave forma di miopia. La gente del vicolo si tassa per permetterle una visita oculistica e per comprarle un paio di occhiali. Arrivato il gran giorno la bambina inforca le lenti e scopre, per la prima volta, il mondo intorno a sé. L’incanto del golfo, bellezza della città, la meraviglia del mare. Poi però ritorna nel suo basso e scopre la miseria e il degrado in cui aveva vissuto fino a quel giorno. Allora i toglie gli occhiali, li getta a terra e li calpesta. Meglio non vedere. Meglio non sapere.
Antonio, il figlio di Rita, ha fatto una cosa simile, per com’era capace lui. Ha provato a spegnere la luce in tutto il vicolo.