Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il Sud non tema l’autonomia
La richiesta di alcune regioni italiane — in particolare Lombardia e Veneto — di una concessione a loro favore di una maggiore autonomia legislativa e di spesa, come previsto dall’articolo 116 della Costituzione, è un’istanza positiva e legittima.
Un’istanza a cui porre condizioni ma non barriere. Per questo è molto utile il dibattito che, sulle pagine del Corriere del Mezzogiorno, si è sviluppato nelle scorse settimane e a cui provo a dare un contributo.
Il Mezzogiorno non deve temere l’autonomia, anzi deve politicamente scommettere sulla propria capacità di sfruttare le leve dell’autonomia per competere con le regioni del Centro Nord in ambiti dove i governi regionali, se dotati di poteri e risorse, possono fare di più e meglio di quello nazionale. L’idea alla base di quella norma costituzionale è che la «devoluzione» di competenze segua un principio di efficienza e di merito, a vantaggio di quei territori che dimostrano di poter gestire determinate funzioni alleggerendo lo Stato centrale e permettendogli di dedicarsi con maggiore incisività a quelle materie che più richiedono un intervento unitario.
Con Forza Italia, abbiamo sostenuto i referendum consultivi in Lombardia e Veneto, convinti che essi potessero essere una leva virtuosa per riaprire il cantiere del federalismo, dell’autonomia e dell’assunzione di responsabilità da parte delle classi politiche e delle opinioni pubbliche di tutte le regioni italiane, Mezzogiorno incluso. È in tutte le regioni italiane che occorre far partire una riflessione profonda e concreta su quanta autonomia è possibile, per erogare servizi e svolgere compiti a un livello il più possibile vicino ai reali bisogni dei cittadini. La richiesta di autonomia può e deve essere una forma di riscatto, di modernizzazione e di responsabilità fiscale anche e soprattutto al Sud. Ma perché ciò avvenga, non abbiamo bisogno di strappi, né di tentativi di usare i meccanismi costituzionali per forme velate di secessione. O, peggio, di contesa partitica tra una «Lega nazionale» e una «Lega nordista».ù
L’Italia non può certo essere il terreno di confronto congressuale tra le anime di un partito. Per questa ragione, è essenziale porre almeno tre condizioni alle legittime aspirazioni di autonomia di Lombardia e Veneto, o di qualsiasi altra regione chiederà maggiore autonomia. Prima condizione: l’autonomia legislativa può essere accompagnata dalle stesse risorse oggi destinate
dallo Stato nel territorio della regione per le competenze che verranno devolute, non da un euro in più, perché questo significherebbe sottrarre risorse al resto del territorio nazionale.
Seconda condizione: i criteri con cui si sceglieranno le competenze da devolvere debbono essere quelli dell’efficienza e della sussidiarietà. Ci sono competenze, tra quelle possibilmente oggetto di autonomia, che è opportuno lasciare nella disponibilità dello Stato. Un esempio su tutti: le politiche attive del lavoro. Soffriamo in Italia di una frammentazione in questo ambito, frutto della cattiva riforma del Titolo V del 2001, che non consente al Paese di avere servizi di formazione e riqualificazione o centri per l’impiego adeguati agli standard degli altri grandi paesi europei. Queste materie debbono essere il più possibile centralizzate perché unico è il mercato del lavoro italiano. Stesso ragionamento si potrebbe fare per le grandi reti di trasporto, per la produzione e distribuzione di energia, il commercio estero e le relazioni internazionali: vale a dire quelle famose competenze concorrenti che non possono essere spezzettate tra ventuno centri decisionali.
Infine, terza fondamentale condizione: l’attuazione dell’autonomia eventuale prevista dall’articolo 116 deve accompagnarsi alla piena attuazio- ne dell’articolo 119 della Costituzione, laddove si prevede che lo Stato provveda con un fondo perequativo, senza vincolo di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante. Oggi siamo molto lontani dal rispetto concreto di questo principio costituzionale, come dimostrano le scarse risorse di cui si trovano a godere i comuni meridionali su alcuni grandi e strategici comparti della spesa sociale, come gli asili nido, l’assistenza ad anziani e disabili, il contrasto della povertà (va rivisto il concetto e i critieri di calcolo, che troppo spesso oggi premiano gli enti locali che già hanno, a discapito di quelli che ambiscono a costruire una loro autonoma e maggiore offerta di servizi alla persona). Quello tra articolo 116 e articolo 119 (autonomia vs perequazione) è un equilibrio complesso ma efficiente, che non può essere disarticolato, pena il venir meno dell’unità nazionale.
Insomma, di maggiore autonomia alle singole regioni si può e si deve discutere «laicamente», senza pregiudizi ideologici né partiti presi, ma avendo in mente che l’interesse principale da tutelare è quello dei cittadini italiani, in qualunque lembo del nostro bellissimo Paese essi abbiano scelto o si siano trovati a vivere.