Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«M» di Scurati, lezione per il presente
Casi letterari Lo scrittore firma un monumentale volume sul «Figlio del secolo», primo capitolo di una trilogia sul duce. Che salì al potere sull’onda del populismo
Con un esplicito rimando al capolavoro di Henry Miller, anche il nuovo romanzo di Antonio Scurati si apre come un racconto di carne e sangue. Che altro è stata l’Italia, infatti, all’indomani della grande guerra? Una terra di conquista tra masse ideologizzate guidate da intellettuali fin troppo raffinati da un lato, e sbandati dal coltello facile in cerca di vino, sesso e un posto nel mondo, dall’altro. Ma M - Il figlio del secolo (Bompiani, pagine 830), primo capitolo di una trilogia che perlustrerà a fondo l’anima nera dell’Italia seguendo l’ascesa e la caduta di Mussolini, è molto di più. È innanzitutto una disamina del concetto di populismo sdoganato proprio dal fascismo: un movimento nato da reduci di guerra scontenti e spiantati d’ogni sorta, saldatosi a quello dei proprietari terrieri emiliani avviliti dalle conquiste sindacali dei contadini. Mussolini riesce a mantenerlo liquido, a depurarlo da ideali che non siano i più larghi e generici possibili (patria, rinnovamento, antisocialismo), a offrirgli continua distrazione con incursioni e pestaggi, a
incanalare la rabbia dei ceti medio-borghesi impoveriti contro le classi dirigenti e le masse dei lavoratori. È proprio in questa accezione antisistemica – proporsi come l’uomo nuovo, benché si provenga da una lunga storia di socialismo rivoluzionario — che Scurati sembra tracciare una mappa utile a orientarsi nel nostro presente. Il pericolo immigrazione o la rottamazione dell’intera classe politica altro non sono che un abile incanalamento del rancore dei ceti medi, complice la crisi economica e alcuni governi tecnici o di sinistra annacquati, contro ceti più bassi o contro la politica in sé.
Da questo punto in poi, tuttavia, le similitudini con gli anni Venti cessano del tutto. L’Italia del primo dopoguerra è uno stato liberale in crisi, in cui le garanzie costituzionali traballano, si può girare armati e gli scontri verbali sulla stampa sono violentissimi. Ma, soprattutto, è uno stato in cui le conquiste socialiste hanno fatto passi da gigante, strappando contratti collettivi e addirittura imponendo l’egemonia delle Camere del Lavoro sui proprietari terrieri sotto ogni forma, dai salari addirittura alla scelta delle colture. Un paese preoccupato dall’ombra rossa che da oriente si avvicina minacciosa. Un paese la cui classe dirigente di sinistra, pur detenendo il potere nella vita produttiva e viva della nazione, ha paura di compiere il gesto finale dell’insurrezione: per diatribe interne, per impreparazione logistica e per l’eccessiva separazione dell’avanguardia intellettuale dalle esigenze sporche della politica. Memorabile è la scena del romanzo in cui Lenin, ricevendo Bombacci, Bordiga e altri socialisti alla vigilia della marcia su Roma, chiede cosa ne pensino i contadini e gli operai del fascismo e in cambio ne riceve scena muta.
Eppure, in questo sommovimento violento che furono le ribalderie fasciste a danno di inermi braccianti con la tacita connivenza — se non l’aperto appoggio — dello Stato, non può non intrave- dersi l’ombra da operetta che sembra avvolgere qualsiasi tragedia nostrana e che spinse Ennio Flaiano a dichiarare «la situazione politica in Italia è grave ma non è seria». Le squadre fasciste non sarebbero durate che pochi minuti di fronte all’esercito o ai carabinieri in assetto di guerra (lo dimostrano gli assalti sventati negli ultimi mesi del 1922). Lo stesso Mussolini, che vive un’inconscia nostalgia per le masse proletarie da cui è stato allontanato e che poi lui ha tradito, si chiede a più riprese con sconcerto come sia stato possibile far
Paralleli
Oggi non siamo in una fase di crisi dello stato liberale, ma siamo una nazione divisa
cambiare opinione in ambito politico con tale facilità a una nazione intera. Che è un po’ quello accaduto in tempi recenti, con un’Italia per vent’anni berlusconizzata e improvvisamente trovatasi compatta contro la vecchia politica. Di certo non siamo in una fase di crisi dello stato liberale: ma siamo una nazione divisa, per interessi e particolarismi. Sempre pronti a mutare idea secondo convenienza, ma incapaci di cambiamento vero e proprio.