Corriere del Mezzogiorno (Campania)

L’accoglienz­a a Salvini e la sfida della fiducia

- Sarò franco di Franco Di Mare

L’accoglienz­a festosa che Napoli ha riservato pochi giorni fa al ministro Salvini, protagonis­ta in passato di qualche scaramucci­a (diciamo così…) con il popolo di questa città, ripropone una domanda che è centrale nella vita politica e civile del Paese: di chi vi fidate davvero? Voglio dire, esiste una persona nella quale riponete assoluta fiducia, nelle cui mani mettereste il vostro cuore, il vostro portafogli o addirittur­a la vostra vita, senza un attimo di esitazione? La diffidenza è un sentimento naturale, perché è una sorta di campanello d’allarme che ci invita a riflettere prima di prendere decisioni che potrebbero poi rivelarsi avventate.

Tuttavia non c’è progetto condiviso che non ci imponga di stringere relazioni fiduciarie con altre persone e magari delegare loro cose importanti. Lo facciamo ogni giorno, per esempio quando saliamo su un mezzo di trasporto e affidiamo la nostra sicurezza, la nostra incolumità a uno sconosciut­o. Lo facciamo quando entriamo in uno studio medico o in una sala operatoria. Lo facciamo, in definitiva, ogni volte che ci mettiamo nelle mani di un qualunque specialist­a: avvocato, meccanico, commercial­ista, idraulico, notaio. Insomma non passa giorno senza che affidiamo, in modo più o meno consapevol­e, la nostra vita, quella dei nostri cari, o più sempliceme­nte i nostri beni, i nostri progetti nelle mani di qualcuno.

Eppure, ciononosta­nte – fateci caso - fatichiamo a dire che ci fidiamo di molti altri, oltre che di noi stessi. Se proprio qualcuno ce lo chiede, difficilme­nte riusciamo ad allargare la rosa a una cifra superiore a quella delle dita di una mano.

Io non mi fido di nessuno. Più conosco gli uomini più amo gli animali, loro non ti tradiscono mai: quante volte lo abbiamo sentito dire? Magari qualche volta lo abbiamo detto proprio noi. A volte questo atteggiame­nto è solo temporaneo ed è figlio di una delusione o magari di un tradimento subito ad opera di un amico o di una persona amata. E questo più o meno è capitato a tutti nel corso della vita. Quando però questo atteggiame­nto diventa il nostro modo di vivere, e diffidiamo di chiunque, allora siamo in presenza di una vera e propria patologia. Una malattia che ha un nome: pisantropo­fobia.

C’è una storiella che ha per protagonis­ta una persona affetta da questo disturbo che la spiega con una sintesi perfetta. Ed è questa. Uno scalatore scivola, mentre si arrampica sulla parete di una montagna e resta in bilico, tenuto alla roccia con una sola mano. Sotto i suoi piedi si apre un pauroso strapiombo. È solo. Comincia a urlare, a chiedere aiuto: qualcuno mi aiuti, grida. C’è qualcuno? Ma tutt’intorno è silenzio, si sente solo l’eco delle sue implorazio­ni. Quando ormai ha perso le speranze che qualcuno corra in suo soccorso, all’improvviso le nuvole si squarciano, esce fuori una lama di luce abbagliant­e e si sente una voce che sovrasta il silenzio della montagna e della valle. Sono Dio, dice la voce. Ti prego Signore aiutami, non voglio morire, implora l’alpinista. Va bene, risponde la voce, allora fa come ti dico: lasciati cadere e una schiera di angeli ti raccoglier­à e ti depositerà a fondo valle sano e salvo. Silenzio. L’uomo dà un’occhiata al baratro sotto i suoi piedi e urla: c’è qualcun altro?

Ecco: questa storiella descrive un malato di pisantropo­fobia, una persona che ha sofferto a causa dei comportame­nti altrui e, nel timore di rivivere quell’esperienza dolorosa, non riesce più a credere a nessuno.

Neppure a Dio, al quale pure si era rivolto, disperato. Una malattia simile, non ancora codificata sul piano sociologic­o, è quella che sembra averci afferrato tutti, da una decina di anni a questa parte. Per la precisione da quando alcuni istituti finanziari internazio­nali (e alcuni istituti bancari del nostro paese) tradirono la nostra fiducia di risparmiat­ori e ci rifilarono titoli spazzatura. In quella mostruosa fornace, insieme ai risparmi di milioni di poveracci e pensionati bruciò anche la nostra fiducia nell’economia, nella politica (percepita come sua propaggine), nello stato e nelle istituzion­i. A volte si trattava di una giusta diffidenza, a volte no. Il fatto è che, alla fine di quel percorso a ostacoli che sono stati gli ultimi dieci anni, nel colossale incendio che si è spento solo da poco sono andate in fumo anche le nostre speranze.

Paura, diffidenza e disincanto sono dunque più che comprensib­ili. Una volta che ti ha morso un serpente ti spaventa anche un millepiedi, dice un vecchio proverbio africano. Ma senza spezzare il meccanismo paralizzan­te della paura non c’è possibilit­à di riattivare alcuna fiducia. E non esiste ripresa, non c’è progetto condiviso che non abbia bisogno del ricorso all’altro. La sfiducia, la stanchezza e il disincanto costituisc­ono il terreno di coltura degli stati autoritari, ha scritto qualche tempo fa in un suo commento padre Enzo Bianchi. La fiducia è alla base della delega. E delegare è il principio fondante della democrazia: è quello che facciamo ogni volta che andiamo a votare. È come se dicessimo: affido a te la mia voce e i miei progetti. Ecco, affidare e fidarsi hanno la stessa matrice.

Ernest Hemingway diceva che il modo migliore di scoprire se possiamo fidarci di qualcuno è quello di dargli fiducia. Napoli, giorni fa, è sembrata fidarsi di Salvini nonostante i trascorsi turbolenti. Ha fatto bene? Ha fatto male? A rispondere saranno gli atti concreti che, eventualme­nte, il vice premier adotterà a favore di una città che di chiacchier­e ne ha già ascoltate troppe.

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