Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Se lo Stato non si fida dei poveri meridionali
Nonostante sia nato a Pomigliano, Luigi Di Maio sottovaluta la capacità di aggirare le norme di cui è capace il genius loci. E invece il sistema di regole che sta mettendo in piedi per il reddito di cittadinanza è così complesso e bizantino da sembrare fatto apposta per essere violato. Questi nove miliardi dello Stato, cioè dei contribuenti, non verranno infatti trasferiti direttamente ai cinque milioni di italiani in povertà assoluta e/o senza un lavoro, concentrati in buona parte nelle regioni meridionali, con una redistribuzione di ricchezza da lungo tempo attesa per intervenire sulla piaga della povertà.
Anche se non si conoscono ancora nel dettaglio né i criteri che verranno adottati, né la platea cui saranno destinati, né che cosa si farà per il milione e passa di minorenni in povertà.
I soldi verranno invece versati su una carta elettronica ma anonima, valida esclusivamente nei negozi convenzionati, con la quale si potranno comprare solo determinati beni riconosciuti come necessari alla «sopravvivenza minima» (parole di Di Maio), con esclusione delle «spese immorali» (sempre Di Maio), e con la tracciabilità di ogni pagamento, cosi che lo Stato sappia sempre che cosa si è comprato, dove, in che giorno e a che ora.
Insomma, un incubo per le persone per bene, e una manna per gli imbroglioni, che sicuramente troveranno i modi per dirottare un po’ di soldi pubblici. Non è infatti difficile immaginare la nascita di un vero e proprio mercato nero del sussidio, con prestanome, false ricevute, scambi di prodotti, e tutta la macchina della truffa che la malavita organizzata mette in azione dalle nostre parti ogni volta che ci sono finanziamenti dello Stato da aggredire. Il vicepremier minaccia sei anni di carcere a chi tentasse di imbrogliare; ma siccome è l’occasione che fa l’uomo ladro bisognerebbe ridurre le occasioni piuttosto che aumentare le pene, le quali del resto già esistono e da sole non sono mai riuscite a fermare il malaffare.
Forse anche peggio del pericolo rappresentato dagli imbroglioni è però l’umiliazione che questo sistema rischia di infliggere alle persone per bene, ai meridionali davvero in condizioni di povertà che ambiscono al sussidio. La prima di queste umiliazioni è l’aver confuso impropriamente un sostegno al reddito con un assegno di disoccupazione.
Non tutti i poveri sono infatti disoccupati. Anzi, sempre di più sono i cosiddetti «working poor», persone pagate così poco per il loro lavoro da avere un reddito insufficiente per una vita dignitosa.
Se, come spesso capita, la loro paga si aggira intorno alla soglia dei 780 euro, il sistema messo in piedi da Di Maio li incentiva a lasciare il lavoro, o a rinunciare al sussidio.
Allo stesso tempo ci sono anche disoccupati che non hanno un reddito ma dispongono di proprietà, di risparmi, o hanno un lavoretto in nero, magari in un’azienda familiare. Costoro invece avranno diritto al sussidio anche se non lo meritano?
Ma l’umiliazione più grande per i veri poveri è la pretesa dello Stato di voler decidere al posto loro di che cosa hanno davvero bisogno. Stabilendo che non hanno diritto alle «spese immorali», si farà di coloro che ricevono il sussidio una categoria di cittadini di serie B, cui non è concesso di scegliere come disporre del proprio reddito, cosa che invece è uno dei contenuti principali della libertà dell’individuo. Allo stesso modo si imporrà di spendere tutto il contributo nel corso del mese, come se un povero dovesse vivere per forza alla giornata, sbarcare il lunario e basta, e non potesse avere invece la capacità di programmare la propria vita e l’interesse a risparmiare qualcosa, a mettere da parte per una spesa imprevista o futura. E lo Stato compilerà la lista dei prodotti permessi perché evidentemente presume che se dai dei soldi a un povero lui se li spende per forza in vizi e alcol.
È una concezione ottocentesca, dickensiana, della povertà quella che emerge da queste norme, e rischia di trasformare un sussidio universale del welfare in una mancia, un’elemosina elargita sotto stretto controllo.
Subito dopo aver inserito nella legge di bilancio la norma sul reddito di cittadinanza, Di Maio e i parlamentari dei Cinquestelle sono andati a festeggiare, in un barcone sul Tevere a Roma. Una festa semplice, come tante, un aperitivo, uno spritz, matriciana e fusilli, un dj con un po’ di musica per ballare. Chissà se mentre si divertivano a qualcuno di loro sarà venuto in mente che una festicciola così, un brindisi e un ballo, sarebbe vietata a un percettore del reddito di cittadinanza, per il quale anche l’acquisto di una bottiglia di spumante per un compleanno risulterebbe «immorale».