Corriere del Mezzogiorno (Campania)
I migranti e la lezione di Alejandro Solalinde
Èappena trascorso il quinto anniversario della strage di Lampedusa, che causò la morte di 368 persone, fra cui molte donne e bambini eritrei. Una commemorazione che quest’anno è passata sotto silenzio.
Si ha la sensazione che quelle vittime non hanno più un posto nella nostra memoria, assorbiti da teorie secondo cui l’Italia non può più accogliere profughi. Eppure il Mediterraneo continua a essere tra le rotte più pericolose del mondo. Si calcola che nello scorso settembre il 20 per cento di chi è partito dalla Libia risulta morto o disperso. Un dato impressionante che provoca indignazione per la violazione di diritti umani fondamentali. Come rileva Zygmunt Bauman gli stranieri muoiono «alle nostre porte» mentre noi siamo prigionieri della paura.
Vi sono altri confini a essere assai rischiosi per i migranti, come quello che separa il Messico e gli Stati Uniti. Di recente la decisione dell’amministrazione Trump di separare i bambini dai genitori che cercano di entrare negli Usa ha attirato l’attenzione su quest’area del mondo. Ma quotidianamente si consumano drammi: il Messico è il «corridoio» di passaggio per i centro-americani, provenienti in larga parte da El Salvador, Honduras e Guatemala. Sono mezzo milione gli «indocumentados» che transitano annualmente in Messico, di cui ogni giorno 54 vengono rapiti dai narcotrafficanti. Non inseguono il «sogno americano», ma scappano dalle persecuzioni e dalla miseria che dilania una delle regioni più violente del pianeta.
Ne ha parlato, in questi giorni il sacerdote messicano Alejandro Solalinde, ospite della Comunità di Sant’Egidio. Tra i più importanti difensori dei migranti in Messico, responsabile di un centro di accoglienza a Ixpetec, città nel sud del Paese, è minacciato dai narcos per avere denunciato la corruzione delle autorità pubbliche ed è candidato al Premio Nobel per la pace.
L’impegno sociale ha suscitato grande interesse fra i media americani: il New York Times ha lodato «il suo coraggio per avere denunciato crimini orrendi contro i migranti».
Nel libro in cui racconta la sua vicenda umana - I narcos mi vogliono morto (emi, 2017) – è evidente come il contatto con i migranti ha cambiato il suo modo di essere. Un sacerdote che conduce una vita normale fino a 60 anni, evangelizzato dall’incontro con i poveri: «I migranti. Quel giorno li vidi. Prima c’ero passato solo accanto […] Fu così che iniziai. Per prima cosa, cominciai ad avvicinarmi a loro, a parlare, a conoscerli […] Dovevo conquistarmi la loro fiducia sul campo». È l’itinerario di chi accetta umilmente di mettersi in discussione, scoprendo nell’altro un simile a sé, privo però di diritti fondamentali. Da qui fiorisce una nuova stagione nello stare accanto a chi aspetta di salire sulla «bestia», il treno che va dal Messico agli Usa. E allo stesso tempo gusta la libertà, «la cosa più importante poiché è dentro di me». Un’esperienza segnata da continue minacce, che Solalinde spiega senza esaltare se stesso: «È la fede a spingermi a continuare. Non sono un uomo particolarmente buono o intelligente. Non sono un superman, tutt’altro. È Dio a infondermi forza». Parole che hanno uno straordinario significato per noi oggi in questa parte del mondo. Un motivo in più per spingere tanti che vivono la fraternità come un aspetto irrinunciabile della propria esistenza a imparare da lui, ascoltando domani pomeriggio la sua testimonianza.