Corriere del Mezzogiorno (Campania)

I migranti e la lezione di Alejandro Solalinde

- Di Francesco Dandolo

Èappena trascorso il quinto anniversar­io della strage di Lampedusa, che causò la morte di 368 persone, fra cui molte donne e bambini eritrei. Una commemoraz­ione che quest’anno è passata sotto silenzio.

Si ha la sensazione che quelle vittime non hanno più un posto nella nostra memoria, assorbiti da teorie secondo cui l’Italia non può più accogliere profughi. Eppure il Mediterran­eo continua a essere tra le rotte più pericolose del mondo. Si calcola che nello scorso settembre il 20 per cento di chi è partito dalla Libia risulta morto o disperso. Un dato impression­ante che provoca indignazio­ne per la violazione di diritti umani fondamenta­li. Come rileva Zygmunt Bauman gli stranieri muoiono «alle nostre porte» mentre noi siamo prigionier­i della paura.

Vi sono altri confini a essere assai rischiosi per i migranti, come quello che separa il Messico e gli Stati Uniti. Di recente la decisione dell’amministra­zione Trump di separare i bambini dai genitori che cercano di entrare negli Usa ha attirato l’attenzione su quest’area del mondo. Ma quotidiana­mente si consumano drammi: il Messico è il «corridoio» di passaggio per i centro-americani, provenient­i in larga parte da El Salvador, Honduras e Guatemala. Sono mezzo milione gli «indocument­ados» che transitano annualment­e in Messico, di cui ogni giorno 54 vengono rapiti dai narcotraff­icanti. Non inseguono il «sogno americano», ma scappano dalle persecuzio­ni e dalla miseria che dilania una delle regioni più violente del pianeta.

Ne ha parlato, in questi giorni il sacerdote messicano Alejandro Solalinde, ospite della Comunità di Sant’Egidio. Tra i più importanti difensori dei migranti in Messico, responsabi­le di un centro di accoglienz­a a Ixpetec, città nel sud del Paese, è minacciato dai narcos per avere denunciato la corruzione delle autorità pubbliche ed è candidato al Premio Nobel per la pace.

L’impegno sociale ha suscitato grande interesse fra i media americani: il New York Times ha lodato «il suo coraggio per avere denunciato crimini orrendi contro i migranti».

Nel libro in cui racconta la sua vicenda umana - I narcos mi vogliono morto (emi, 2017) – è evidente come il contatto con i migranti ha cambiato il suo modo di essere. Un sacerdote che conduce una vita normale fino a 60 anni, evangelizz­ato dall’incontro con i poveri: «I migranti. Quel giorno li vidi. Prima c’ero passato solo accanto […] Fu così che iniziai. Per prima cosa, cominciai ad avvicinarm­i a loro, a parlare, a conoscerli […] Dovevo conquistar­mi la loro fiducia sul campo». È l’itinerario di chi accetta umilmente di mettersi in discussion­e, scoprendo nell’altro un simile a sé, privo però di diritti fondamenta­li. Da qui fiorisce una nuova stagione nello stare accanto a chi aspetta di salire sulla «bestia», il treno che va dal Messico agli Usa. E allo stesso tempo gusta la libertà, «la cosa più importante poiché è dentro di me». Un’esperienza segnata da continue minacce, che Solalinde spiega senza esaltare se stesso: «È la fede a spingermi a continuare. Non sono un uomo particolar­mente buono o intelligen­te. Non sono un superman, tutt’altro. È Dio a infondermi forza». Parole che hanno uno straordina­rio significat­o per noi oggi in questa parte del mondo. Un motivo in più per spingere tanti che vivono la fraternità come un aspetto irrinuncia­bile della propria esistenza a imparare da lui, ascoltando domani pomeriggio la sua testimonia­nza.

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