Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Morì di malasanità, un milione dopo 7 anni
Pellegrini condannato. I medici non si accorsero che la giovane mamma aveva un sarcoma
NAPOLI Anna — la chiameremo così — aveva 38 anni e due bambini piccoli quando, nel 2011, morì per un sarcoma epitelioide che nell’ospedale dei Pellegrini le avevano curato per mesi come postumo di un intervento al tunnel carpale. Quando i medici dell’Istituto dell’Immacolata di Roma finalmente le diagnosticarono il male, furono inutili tutti i tentativi di salvarla, dalla chemioterapia all’amputazione del braccio. Sette anni dopo la sua morte, il giudice Stefania Pisciotta, dell’VIII sezione civile del Tribunale, accogliendo la richiesta degli avvocati Francesco Paolo Coppola ed Elena Mauro, ha disposto nei confronti dell’Asl Napoli Centro un risarcimento record nei confronti del marito e dei due figli di Anna, che oggi hanno 21 e 17 anni: un milione di euro. In particolare, 20.000 euro a testa sono per la perdita di chance di sopravvivenza della paziente: se il sarcoma le fosse stato diagnosticato al secondo stadio, quando si ricoverò per la prima volta al Pellegrini, avrebbe avuto il 70 per cento di possibilità di sopravvivenza; quando i medici romani cominciarono a curarla, invece, il male era ormai al quarto stadio e le possibilità di sopravvivenza erano solo il 10 per cento.
Altri 25.000 euro a testa sono liquidati a titolo di danno per la perdita del coniuge o della madre. Ma la somma più consistente, 292.454 euro a testa, è per il danno biologico sofferto dagli eredi di Anna: per la sofferenza e lo stress sopportati durante la sua malattia e dopo la sua morte.
Anna, casalinga attivissima e madre sempre presente, nel 2009 si operò al tunnel carpale: un intervento considerato banale e portato a termine senza difficoltà. Pochi mesi dopo, tuttavia, cominciò ad avere dolore al polso, dove le si aprì una ferita che non voleva saperne di cicatrizzarsi. I medici del Pellegrini la curarono in maniera del tutto inadeguata, arrivando a prescriverle la fisioterapia (che le provocava dolori lancinanti) e poi addirittura a intascarle la mano nell’addome sperando che la pelle si riformasse. Scrive il giudice nella sentenza, cirando il consulente tecnico d’ufficio: «Le cure e gli interventi chirurgici adottati dai sanitari della struttura ospedaliera del Pellegrini non appaiono assolutamente idonei alla situazione clinica presentata dalla paziente». Sarebbero dovuti essere prescritti accertamenti diagnostici e quindi «sarebbe stato necessario modificare radicalmente il piano terapeutico e successivamente reimpostarlo a seconda dello stadio della malattia neoplastica sarcomatosa riscontrato. In assenza di una corretta diagnosi di sarcoma, le cure erano inadeguate e hanno peggiorato la neoplasia, favorendone la diffusione».
Per questo motivo, si legge ancora nella sentenza depositata in cancelleria il 9 ottobre, «il comportamento dei sanitari è stato sicuramente censurabile sotto il profilo della negligenza e dell’imperizia». Negligenza e imperizia da cui «è scaturito un ritardo diagnostico foriero di danno. Conseguenza della ritardata diagnosi per ritenuta colpa professionale, la perdita di una significativa percentuale di chance di sopravvivenza per la defunta signora».
I medici del Pellegrini, sottolinea la difesa, nel febbraio 2010 disponevano addirittura del referto istologico per poter formulare la diagnosi, ma furono i loro colleghi romani, due mesi dopo, a interpretare correttamente i dati.
Quella ferita al polso, dunque, non era il postumo dell’intervento al tunnel carpale, ma un sarcoma epitelioide che così definisce Wikipedia: «un tumore maligno dei tessuti molli, detto anche connettivo (alcune volte coinvolge anche i tendini). Il sarcoma epitelioide è detto anche “tumore del giovane adulto”, perché di norma colpisce soggetti dai 15 ai 35 anni».
La sentenza, ovviamente, è appellabile. L’Asl, però, potrebbe decidere di non farlo, riparando così in minima parte alla perdita, da parte del marito e dei figli, di una donna ancora giovane e attiva. Lo stesso giudice, del resto, nel calcolare le somme da liquidare agli eredi, ha tenuto conto dell’età della vittima e dei congiunti (all’epoca dei fatti i figli avevano dieci e quattordici anni).
Il giudice
«Se la malattia fosse stata diagnosticata avrebbe avuto il 70 per cento di possibilità di vivere»