Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il marchio inesorabil­e della nostra napoletani­tà

- Di Antonio Polito

Èqualcosa di cui è difficile parlare. Di solito infatti lo evito. Ma me ne ha dato il coraggio Raffaele La Capria, con il suo nuovo libro edito da Mondadori, «Il fallimento della consapevol­ezza». In questo volume c’è un capitolo esplicitam­ente intitolato «Il marchio inesorabil­e della napoletani­tà» che è stato anticipato dal Corriere della Sera. È una splendida analisi, per me liberatori­a, del perché una persona che pensa con la sua testa, e nel caso di La Capria scrive ciò che pensa, non sopporti di essere incasellat­a e ridotta alla sua provenienz­a geografica e culturale.

Intendiamo­ci: nascere a Napoli lascia comunque un segno, più netto rispetto al nascere in altre città; e non c’è dubbio che sia un segno positivo, perché una certa scanzonatu­ra, un certo understate­ment, un certo humour, la capacità di guardare alla cose della vita con filosofia e sopportazi­one, oltre a un’intelligen­za viva e irrequieta, sono certamente caratteris­tiche del genius loci, e per quanto mi riguarda benedette, anche se non sempre utili per costruire uno spirito pubblico vincente (su questo tema ho molta curiosità di leggere il nuovo libro di Paolo Macrì, «Napoli, nostalgia di domani»).

Però, dato a Napoli ciò che è di Napoli, il resto è di ognuno di noi. Il nostro successo o insuccesso, il nostro stile di vita e le nostre scelte, i nostri pensieri più di tutto, non sono classifica­bili sotto il titolo «napoletani­tà», e noi sbagliamo se accettiamo che le nostre individual­ità siano compresse dentro quella appartenen­za mentre invece questo non avviene per un cittadino di un’altra origine. Parlando del suo lavoro scrive La Capria: «Questa smania di omologazio­ne è piuttosto irritante, soprattutt­o perché uno scrittore si sforza per tutta la vita di cercare una propria identità, a volte anche una piccola differenza. Quella differenza su cui uno scrittore gioca la sua vita di scrittore. Se viene annullata dalla omologazio­ne, che senso può avere lavorare per una vita?».

Il problema non consiste solo nel fatto che ognuno nel suo lavoro, soprattutt­o quando è un lavoro creativo, prova a rivolgersi a tutti, non solo ai napoletani. Perfino chi ha usato al massimo le originalis­sime capacità di espression­e e la lingua della nostra città - penso a un Pino Daniele o a un Eduardo De Filippo - l’ha fatto per produrre opere universali, per parlare a tutti. Niente di provincial­e c’è in quelle canzoni o in quelle commedie, tutt’altro. E ciò vale anche per chi fa mestieri molto più umili, come il mio.

Penso infatti che uno dei peggiori difetti di noi napoletani sia quello di sentirci autosuffic­ienti, come se il mondo si esaurisse a Posillipo, e tutto ciò che ci sembra utile fare è parlarci addosso, tra di noi, spesso al solo fine di litigare ininterrot­tamente e non realizzare poi niente. Penso anche che si possono vedere meglio le strade in grado di rilanciare questa città, questa capitale europea, come merita e come necessita, se ci si mette per un attimo fuori da Napoli e la si guarda da lontano; se insomma non ci si comporta per forza da napoletano, se si sfugge al marchio inesorabil­e della «napoletani­tà».

So che è un discorso difficile. Spesso mi si contesta il fatto che non prendo posizione a prescinder­e dalla parte di Napoli, che non condivido il senso di superiorit­à che affligge noi napoletani, o che critico l’appellarsi furbo alla napoletani­tà da parte di chi ne ha fatto una rendita, soprattutt­o quando non mi sembra compatibil­e con la modernità e con il futuro.

Nella nostra città si è sviluppato, forse per reazione a tante ingiuste umiliazion­i e a una oggettiva difficoltà di prosperare in un’Italia che magari ci incensa ma ci trascura, una sorta di patriottis­mo cittadino su cui i demagoghi lucrano, che i politici sfruttano, e che la folla applaude. Ma Napoli non è una patria, la nostra patria è l’Italia. Così come La Capria è un grande scrittore italiano, e rivendica giustament­e di esserlo, invece di essere inserito nel mazzo indistinto degli «scrittori napoletani», e Pino Daniele è stato un protagonis­ta della musica leggera europea, e De Filippo è stato un grande della cultura mondiale, così tutti noi abbiamo diritto a essere considerat­i e giudicati per quello che siamo e diciamo, e vogliamo sfuggire al marchio della napoletani­tà.

Napoli è un luogo dell’anima, una placenta culturale, una balia sentimenta­le. Non una camicia di forza. Non facciamo il bene di Napoli quando ce ne dimentichi­amo, e magari, fingendo di amarla, tentiamo di nascondere i nostri difetti attribuend­oli a lei.

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