Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il marchio inesorabile della nostra napoletanità
Èqualcosa di cui è difficile parlare. Di solito infatti lo evito. Ma me ne ha dato il coraggio Raffaele La Capria, con il suo nuovo libro edito da Mondadori, «Il fallimento della consapevolezza». In questo volume c’è un capitolo esplicitamente intitolato «Il marchio inesorabile della napoletanità» che è stato anticipato dal Corriere della Sera. È una splendida analisi, per me liberatoria, del perché una persona che pensa con la sua testa, e nel caso di La Capria scrive ciò che pensa, non sopporti di essere incasellata e ridotta alla sua provenienza geografica e culturale.
Intendiamoci: nascere a Napoli lascia comunque un segno, più netto rispetto al nascere in altre città; e non c’è dubbio che sia un segno positivo, perché una certa scanzonatura, un certo understatement, un certo humour, la capacità di guardare alla cose della vita con filosofia e sopportazione, oltre a un’intelligenza viva e irrequieta, sono certamente caratteristiche del genius loci, e per quanto mi riguarda benedette, anche se non sempre utili per costruire uno spirito pubblico vincente (su questo tema ho molta curiosità di leggere il nuovo libro di Paolo Macrì, «Napoli, nostalgia di domani»).
Però, dato a Napoli ciò che è di Napoli, il resto è di ognuno di noi. Il nostro successo o insuccesso, il nostro stile di vita e le nostre scelte, i nostri pensieri più di tutto, non sono classificabili sotto il titolo «napoletanità», e noi sbagliamo se accettiamo che le nostre individualità siano compresse dentro quella appartenenza mentre invece questo non avviene per un cittadino di un’altra origine. Parlando del suo lavoro scrive La Capria: «Questa smania di omologazione è piuttosto irritante, soprattutto perché uno scrittore si sforza per tutta la vita di cercare una propria identità, a volte anche una piccola differenza. Quella differenza su cui uno scrittore gioca la sua vita di scrittore. Se viene annullata dalla omologazione, che senso può avere lavorare per una vita?».
Il problema non consiste solo nel fatto che ognuno nel suo lavoro, soprattutto quando è un lavoro creativo, prova a rivolgersi a tutti, non solo ai napoletani. Perfino chi ha usato al massimo le originalissime capacità di espressione e la lingua della nostra città - penso a un Pino Daniele o a un Eduardo De Filippo - l’ha fatto per produrre opere universali, per parlare a tutti. Niente di provinciale c’è in quelle canzoni o in quelle commedie, tutt’altro. E ciò vale anche per chi fa mestieri molto più umili, come il mio.
Penso infatti che uno dei peggiori difetti di noi napoletani sia quello di sentirci autosufficienti, come se il mondo si esaurisse a Posillipo, e tutto ciò che ci sembra utile fare è parlarci addosso, tra di noi, spesso al solo fine di litigare ininterrottamente e non realizzare poi niente. Penso anche che si possono vedere meglio le strade in grado di rilanciare questa città, questa capitale europea, come merita e come necessita, se ci si mette per un attimo fuori da Napoli e la si guarda da lontano; se insomma non ci si comporta per forza da napoletano, se si sfugge al marchio inesorabile della «napoletanità».
So che è un discorso difficile. Spesso mi si contesta il fatto che non prendo posizione a prescindere dalla parte di Napoli, che non condivido il senso di superiorità che affligge noi napoletani, o che critico l’appellarsi furbo alla napoletanità da parte di chi ne ha fatto una rendita, soprattutto quando non mi sembra compatibile con la modernità e con il futuro.
Nella nostra città si è sviluppato, forse per reazione a tante ingiuste umiliazioni e a una oggettiva difficoltà di prosperare in un’Italia che magari ci incensa ma ci trascura, una sorta di patriottismo cittadino su cui i demagoghi lucrano, che i politici sfruttano, e che la folla applaude. Ma Napoli non è una patria, la nostra patria è l’Italia. Così come La Capria è un grande scrittore italiano, e rivendica giustamente di esserlo, invece di essere inserito nel mazzo indistinto degli «scrittori napoletani», e Pino Daniele è stato un protagonista della musica leggera europea, e De Filippo è stato un grande della cultura mondiale, così tutti noi abbiamo diritto a essere considerati e giudicati per quello che siamo e diciamo, e vogliamo sfuggire al marchio della napoletanità.
Napoli è un luogo dell’anima, una placenta culturale, una balia sentimentale. Non una camicia di forza. Non facciamo il bene di Napoli quando ce ne dimentichiamo, e magari, fingendo di amarla, tentiamo di nascondere i nostri difetti attribuendoli a lei.