Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Quelle vane maldicenze sulla musa bambina
Ottobre declinava, a Napoli. Con una dolcezza climatica contraddetta dalla massa sonora del traffico che ingrossava, rombava dallo snodo del Museo Nazionale. Umberto Ceriale, il misantropo e mordace critico teatrale, stava inerpicandosi per il violento dislivello di via Salvator Rosa.
«Devo perdere chili», si era ripromesso già al rientro dalle oziose vacanze cilentane, «Marcello c’è riuscito senza sforzo. E abbiamo la stessa età, alla fine».
Avevano superato entrambi, da poco, il tornante della sessantina. Tuttavia per Marcello Di Fiore, un valoroso attore teatrale, la ricorrenza era stata come quegli striscioni issati per festeggiare i traguardi della montagna, nei vecchi Giri d’Italia. Per Marcello Di Fiore i sessanta era stati una tappa solennizzata inaugurando un nuovo legame sentimentale. La solita storia senile, sbuffò Umberto incalzato dal fiatone, mentre l’ultimo scorcio del Museo si inabissava dietro e sotto di lui. Sempre lo stesso ritornello: il maschio in età che decide di ringiovanire con una trasfusione di sangue fresco. Vale a dire vampirizzando una donna giovane e fertile (l’andropausa è una deleteria cazzata che rientra nel progetto di neutralizzazione dei sessi: gli uomini non smettono mai di essere potenzialmente fecondi). La precedente compagna di Marcello – Morena, un’attrice cinquantenne che aveva sempre vivacchiato all’ombra del marito – era stata congedata in una tempesta di sensi di colpa. Marcello li aveva sedati trovandole delle buone scritture in altre compagnie, a parte l’assegno di mantenimento che lo svenava. Insomma: per ravvivare il proprio sangue con una nuova compagna, Marcello si stava dissanguando. Umberto Ceriale, considerato un salace battutista, ridacchiò per la propria spiritosaggine. Di fatto, in cima alla salita, si ora ritrovava quasi ad ansimare. Avrebbe fatto bene a rientrare nei parametri del peso-forma. Purtroppo lui, scapolo incallito, a differenza di Marcello non aveva accanto a sé una micetta che lo invogliasse all’illusione dell’eterna giovinezza. Si strinse nelle spalle.
«Fa niente. Io ho il bene più prezioso: la mia indipendenza, la mia libertà morale».
Il critico ne era orgoglioso. Così, varcando il portale dell’antico edificio, Umberto tornò ad impettirsi. Il cigolante ascensore, fra gli scricchiolii del suo legno, lo depositò all’ultimo piano: la casa con terrazza di Marcello. Prima delle vacanze i due avevano simpatizzato dopo che, per anni, Umberto aveva mantenuto le distanze verso un attore che, almeno una o due volte a stagione, gli toccava recensire. Da qualche tempo, invece, Umberto aveva deciso di mandare all’Inferno certi scrupoli deontologici. Il critico aveva infatti scoperto in Marcello un uomo schivo fuori dalla scena, un’intelligenza nutrita di letture tanto raffinate quanto non ostentate. E poi Marcello lo interessava, con quella sua Melancholia che si commutava in pathos una volta sul palcoscenico; con quella sua voluta estraneità ai riti mondani della loro tanto ipertrofica, quanto provinciale città. Marcello che, venuto ad aprire personalmente la porta, sembrò al critico effettivamente ringiovanito rispetto al loro ultimo incontro prima dell’estate.
«Sicuro che non capito nel momento sbagliato? Magari stavi lavorando».
Umberto Ceriale nutriva un rispetto religioso per la fatica degli altri. Dunque si sentiva in difetto ora che Marcello l’aveva pilotato nel proprio studio. Sulla scrivania, accanto al computer, un ventaglio di pagine affastellate le une sulle altre, fitte di annotazioni ai margini e sottolineature.
«Guarda: non solo non mi scocci, ma capiti a proposito. Avevo bisogno di una pausa da tutta questa carta».
Ha una compagna giovane, pensò istintivamente Umberto. Dovrebbe essere lei a distoglierlo per occupazioni più piacevoli. Viceversa l’ha lasciato solo per andarsene a folleggiare chissà dove. Nel frattempo Marcello aveva sfilato le lenti dal naso, aquilino ma con una nervatura sottile. Come sempre il suo viso lungo, affilato emanava una piccola musica da teatro russo.
«Sai una cosa? Sto scrivendo una pièce ispirata a lei. A Vanessa».
Marcello lo aveva annunciato - di un fiato, a bruciapelo - con un misto di ritegno e di fierezza. Una fierezza che si manifestò, agli occhi prima disincantati poi orripilati di Umberto, come un candore spaventevole. Il suo amico pareva inerme e plagiato, a sessant’anni.
«Bene», mormorò il critico meccanicamente. La sua mente gli fece ripassare davanti agli occhi, come delle dissolvenze cinematografiche, le tante dicerie sulla nuova compagna di Marcello. Chi le aveva propala- te, però? L’ex moglie di Marcello. E Francesco Botalla, un antico e libidinoso amante di Vanessa archiviato da anni con ignominia. Per non parlare delle velenose insinuazioni da parte delle ammiratrici senza speranze di Marcello.
«Lei è la mia Musa». Marcello si stava infervorando, come gli adolescenti quando teorizzano su concetti avulsi dalla realtà e perciò romantici.
«La Musa non è una bella statuina, però. È una portatrice, una suscitatrice di storie. Qualcosa di dinamico, capisci?». Umberto si era irrigidito. «Perché non ti chiedi dov’è ora la tua dinamica Musa?», andava pensando. Il tocchettio di nocche alla porta dello studio: si era fatta avanti una ragazza dai capelli raccolti. Un elfo biondo-rossiccio, struccato e con uno strano sorriso interiore. Le gambe sottili erano fasciate da leggins scuri; le forme ricoperte da un maglione sopra-taglia. Marcello irradiava un orgoglio che, al critico, parve rovinoso.
«Stavamo parlando proprio di te».
Vanessa, dopo uno sguardo complice con Marcello, salutò l’ospite compunta come una bambina. Ispirava semplicità, che strano... Intanto, mentre le parole di Marcello parevano ebbre di sole come le farfalle, Vanessa si era rannicchiata in un angolo dello stesso divano. L’attore, senza smettere di parlare, le massaggiava le dita dei piedi.
«Come si fa con una donna incinta», pensò Umberto sgomento. Subito dopo non poté fare a meno di notare che Marcello appariva luminoso come mai in scena. La giovane, a propria volta, sembrava un aggregato di felicità: quella felicità racconsolata che si prova dopo aver finalmente trovato la strada di casa. Possibile che costei fosse l’essere inaffidabile e indifendibile dipinto al vetriolo da Morena e Botalla? Ad Umberto, pur con tutto il disincanto della sua indole laica, questa pareva una scena dolcemente coniugale, non artefatta. Possibile allora che qualcosa, al mondo, esulasse dalla finzione teatrale? Forse era davvero possibile, si rispose.