Corriere del Mezzogiorno (Campania)
L’OMICIDIO POLITICO DI UN LEADER
Da quarant’anni sono amico di Antonio Bassolino nella buona e nella cattiva sorte. E quest’amicizia privata, nata quando non facevo ancora il giornalista, ha resistito all’usura del tempo e agli inevitabili dissidi grazie a un patto mai tradito da entrambi: ciascuno avrebbe fatto il suo mestiere senza condizionare l’altro. Dico questo per pagare il debito di trasparenza sottoscritto con i lettori e asciugare le malelingue pronte sempre a sputare il loro veleno. Ebbene, se oggi parlo di Bassolino e della sua inquietante vicenda giudiziaria (18 assoluzioni in 18 processi intentati nei confronti dell’attività amministrativa compiuta prima da sindaco e poi da presidente della Regione) lo faccio soltanto per provare a descrivere in quale abisso sia precipitata la politica e, di conseguenza, la qualità della nostra vita di italiani e, nel caso specifico, di napoletani. Ovviamente il caso dell’ex governatore non è l’unico: stessa sorte, sia pur in misura minore, hanno subìto tanti altri esponenti istituzionali, da Clemente Mastella a Vincenzo De Luca per citare quelli che sono ancora sulla cresta dell’onda. Ma il rosario di accuse scagliate contro un uomo che vent’anni fa sembrava destinato addirittura ad assumere la guida della sinistra riformista, e forse dell’intero Paese, ha prodotto un risultato senza precedenti: «l’omicidio politico» di un leader e della sua stagione di governo.
Per anni il cosiddetto «bassolinismo» — ma se fosse stato un vero sistema di potere si sarebbe sgretolato nel volgere di un mattino? — è stato additato da tutti, a cominciare proprio dalla sinistra, come la causa di ogni male, il cancro da estirpare per riprendere il cammino.
L’esito di tale rimozione, simile a quelle di stampo sovietico, è oggi dinanzi ai nostri occhi: le forze progressiste sono state spazzate via dal populismo in salsa vesuviana guidato da Luigi de Magistris, folle plaudenti accolgono Matteo Salvini in città come il Messia a Gerusalemme, e chi si è prestato a quest’opera di killeraggio ideologico ora siede, come premio, in Parlamento.
Sia chiaro, di errori in vent’anni Bassolino ne ha commessi un bel po’, soprattutto nell’ultima legislatura a Palazzo Santa Lucia. Si è fatto avvolgere dalle spire del notabilato vesuviano, ha puntato spesso sulle persone sbagliate, non s’è curato (da buon comunista) di far crescere una classe dirigente capace di raccogliere la sua eredità, ha ceduto a qualche compromesso di troppo in nome degli equilibri nazionali.
Ma da qui a veder messa in gioco la sua reputazione in 18 processi ce ne corre, eccome. Degli aspetti giudiziari di questa faccenda si è occupato magistralmente ieri Giovanni Verde su Il Mattino. Tuttavia esiste anche un risvolto politico che, a mio avviso, chiama in causa la flebile resistenza opposta, negli anni passati, da larghi settori della società napoletana al dilagare della peggiore demagogia (quella di cui ogni giorno paghiamo il prezzo come cittadini) e indica la possibilità di una strada comune — al di là, dunque, delle bandiere di partito — sulla quale incamminarsi verso un riformismo che faccia tornare Palazzo San Giacomo a essere il cuore amministrativo della città e non l’attuale fortilizio politico nelle mani di un esercito sbrindellato che bada esclusivamente alla propria sopravvivenza quotidiana (compreso il piatto a tavola, per intenderci).
Bisogna cominciare ad abbattere i falsi idoli cui destra e sinistra si sono inchinate supinamente, pensando così di inseguire la scia della Storia. Possiamo, ad esempio, riprendere ad affermare senza timore che la politica può — a volte, deve — essere una professione, purché sia esercitata con onestà e rigore al pari di qualsiasi altra professione? Problemi complessi come quelli che attanagliano la nostra città possono essere affrontati da persone prive della necessaria competenza tecnica e amministrativa? No, sette anni di giunta de Magistris ne sono la testimonianza più palese: mai come ora Napoli è stata priva di servizi pubblici, trasformandosi così nella metropoli più «classista» d’Italia. Chi ha soldi in tasca, se ne frega degli autobus che non passano. E allora siamo davvero sicuri che i vituperati «professionisti della politica» siano peggiori di questi dilettanti allo sbaraglio?
Seconda questione: se la politica torna ad essere un servizio di alto profilo reso alla comunità da un gruppo di cittadini eletti dal popolo, possiamo accettare che lo stipendio mensile di un sindaco in una grande città superi di poco i 4000 euro netti e quello di un assessore arrivi sì e no alla metà? Abbiamo ceduto alle lusinghe del moralismo giacobino che ci intimava di considerare l’amministrazione della cosa pubblica come un esercizio pressoché gratuito, con gli stipendi ridotti al minimo e l’abolizione (o quasi) del finanziamento pubblico ai partiti.
Risultato: oggi fanno politica soltanto i ricchi e gli spiantati. D’altronde, per quale motivo un professionista — o un lavoratore dipendente, che è lo stesso — dovrebbe congelare carriera e guadagni con l’obiettivo di trascorrere cinque anni (dieci in caso di rielezione) a fronteggiare le mille emergenze di Napoli, combattere una burocrazia ammuffita, mediare con il governo nazionale, per intascare a fine mese, nel migliore dei casi, 4000 euro netti? Senza contare inoltre — e qui torniamo al caso Bassolino — i guai giudiziari che fatalmente lo assaliranno se vorrà amministrare con un minimo di piglio decisionale.
Assecondando l’antico motto di San Basilio Magno, il quale sosteneva che «il denaro è lo sterco del diavolo», siamo piombati dentro un Medioevo ideologico popolato di untori che hanno trasformato la politica in un’idiozia conquistata a fatica, un passatempo per pittori della domenica. Ciascuno di noi porta sulle spalle una quota di responsabilità: i partiti, l’informazione, i sindacati e, in ultimo ma non ultima, la magistratura. Soltanto risollevando la testa, sottraendosi al conformismo di massa e camminando in direzione ostinata e contraria, sarà possibile forse trovare l’antidoto al populismo. A Napoli come nel resto del Paese. Le nuove tecnologie sono un mezzo per far viaggiare le idee. Ma senza idee servono a ben poco. Speriamo che le 18 assoluzioni su 18 processi di Antonio Bassolino riescano almeno a innescare una riflessione comune sul tracollo della politica. Visto che per scusarsi, ormai, è troppo tardi.