Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Una tragica giornata di tempesta

- di Fortunato Cerlino

La chiamano perturbazi­one. Il cielo è ocra, sembra più basso e senza profondità. Sui tettucci delle auto e sui vetri delle finestre c’è un sottile strato di sabbia del Sahara. Il suono cupo del vento ingoiato dai vicoli rimbomba nei tubi di ghisa, scuote le lamiere di amianto, deflagra nei tombini. La pioggia si prepara a bombardare Napoli.

La principess­a Di Sangro scende lungo il vicolo deserto che porta al mare. Lascia sui lastroni umidi impronte fangose gialle. Nessuna voce umana nei dintorni. Tutti hanno già trovato rifugio dalla imminente tempesta.

La principess­a però, sa che il vento penetra ogni cosa, e come il destino, porta via il cappello anche ai preti.

Un ombrello impazzito la sfiora. Pochi centimetri e l’avrebbe colpita, ma la donna sa anche che oggi non sarà lei a morire.

«’O viento scioscia addo vo’ isso. Ne senti la voce, ma nun saje da dove viene nè addo va». Farfuglia tra sé come se pregasse. Gli occhi socchiusi per la sabbia, ma anche per l’abitudine al vaticinio, che la costringe a un continuo stato di trance e sonnolenza.

Si ferma, prende fiato. Guarda verso l’alto. Aspetta. Il pezzo di cornicione cade davanti ai suoi piedi. Riprende a camminare.

Un ragazzino, tredici anni, forse quattordic­i, schizza a folle velocità sul suo scooter. Una zoccola grossa quanto un cinghiale gli taglia la strada. La frenata fa

scivolare il mezzo per alcuni metri. Lo specchiett­o in frantumi, la fiancata da rifare. La pistola nascosta nella tasca della felpa balza via su un cumulo di monnezza maleodoran­te.

Si rialza incazzato. Bestemmia mezzo paradiso e tutti i santi scesi in terra mentre verifica il danno. Non si accorge del taglio che ha sulla fronte. La principess­a gli passa accanto. È una donna di una certa stazza, ma in quel frangente rimane invisibile.

Il sangue scorre dall’arcata sopraccigl­iare del mezzo-bambino. Gli finisce negli occhi, ma la sua unica preoccupaz­ione e rimettere in piedi lo scooter e riprendere la corsa.

Le scariche elettriche della batteria riavviano il motore. I piedi non arrivano a terra e il ragazzino è costretto a una specie di danza per tenere l’equilibrio. Prima di ripartire si tasta la felpa. Bestemmia l’altra metà del paradiso scampata alla sua furia.

«Signò!».

La principess­a Di Sangro si gira. «Nunn’è che per caso avite visto cade’ qualcosa?».

La donna non risponde.

«Me songo perso na cosa importante».

La principess­a continua a fissarlo senza parlare. Lui si innervosis­ce. Mette lo scooter sul cavalletto. Per poco non cade di nuovo. Si avvicina a lei più del dovuto.

«Aggio perso ‘o fierro, l’hai visto ‘e cade’?».

«Nunn’è ‘o fierro che hai perso, piccerì».

Il ragazzino è perturbato, anche se non sa spiegarsi il perché.

«Ma va fanculo!».

Tornando allo scooter vede l’arma su un sacchetto di rifiuti coperta dalle interiora di un pollo. Bestemmia ancora. Stavolta tocca alle divinità orientali.

Estrae la pistola cercando di non vomitare. La voce della principess­a alle sue spalle lo fa sobbalzare.

«Sei anni, sei giorni e sei munuti...». Il ragazzino si ferma un istante, poi decide di ignorarla e pulisce l’arma usando la pagina di un giornalett­o pornografi­co trovato tra i rifiuti.

«Chisto è ‘o tiempo che te rimmane se pigli chella pistola».

Il mezzo-uomo si incazza sul serio. Si alza di scatto, vorrebbe avventarsi su

quell’ammasso di carne flaccida, ma all’improvviso riconosce la donna. Quella di fronte a lui è la principess­a Di Sangro, la fattucchie­ra del rione.

«E se non la piglio?».

«Due figli, nu maschio e na femmena. Te spusarraje cu na bona guagliona. Te vorranno bene. Nu mutuo per la casa e quasi sempre senza na lira dinto ‘a sacca».

Il ragazzino trema. Scopre i denti superiori e schiocca la lingua. Infila la pistola nella felpa, salta sul suo scooter e schizza via.

La principess­a Di Sangro lo guarda mentre si allontana. Si fa il segno della croce, poi riprende la sua strada.

Arrivata al mare le sembra che le onde vogliano ingoiare il Vesuvio con tutta la sua lava in pancia.

Arriva sotto un pino altissimo della villa comunale. Si appoggia al tronco, si inginocchi­a. Tira fuori una candela bianca. La accende. Il vento non osa spegnerla. La donna parla all’albero.

«Tu oggi ucciderai nu buono guaglione. Nun sarà colpa toja, e nemmeno a soja. Chello che nun capisco è, pecché? Cu tanti fetenti ‘ncoppa a sta terra, tu porterai all’altro mondo n’anima buona».

La principess­a bestemmia a bassa voce. Tutto l’inferno. Tutti gli inferni. Da lontano sembra che preghi, anche perché piange mentre bestemmia.

Si fa il segno della croce. Si allontana dall’albero.

Attraversa la strada e percorre via Caracciolo.

Lo vede. Il ragazzo va verso la villa comunale. È giovane, più di quanto aveva visto nella sua visione. Lo sguardo pulito. Uno zaino pieno di libri di matematica. Una sciarpa del Napoli al collo. Il gagliardet­to di una squadra di basket che spunta dalla giacca.

«Cià Davide», sussurra la principess­a quando gli passa accanto.

Il ragazzo sembra sentire il suo nome, poi si convince che si inganna. Il vento crea queste illusioni.

Mentre entra nella villa comunale, una raffica impazzita si fa strada tra gli alberi scuotendol­i dalle radici.

La principess­a non si gira quando sente il tronco spezzarsi. Il cielo si fa nero. A scrosci, la pioggia cade su un’altra giornata di tempesta.

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