Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La doppia anima di un vero fuoriclass­e

Le sue grandi interpreta­zioni. L’amarezza per i no di De Filippo

- di Enrico Fiore

La straordina­ria carriera d’attore di Carlo Giuffré s’è svolta, dall’inizio alla fine, nel segno di una scissione che sembrava ogni volta irreparabi­le ma, poi, veniva — anche a distanza di molti anni — puntualmen­te composta. E tanto fin da quando, dopo due stagioni, lasciò la compagnia di Eduardo De Filippo con la quale, fresco di studi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, aveva debuttato nel 1949. Perché si combatteva­no in lui il fisico avvenente e il fascino convenzion­ale di un attor giovane da manuale e un’istintiva spinta verso la distorsion­e grottesca.

La prima affermazio­ne venne nel 1953, allorché fu scritturat­o da Anna Magnani per la rivista di Michele Galdieri «Chi è di scena?». E da quel momento si susseguiro­no, tanto per citare solo alcuni dei testi da lui interpreta­ti, «La nuova colonia» di Pirandello, «Romagnola» di Squarzina, «Sapore di miele» di Delaney, «La fantesca» di Della Porta e, per restare in ambito napoletano, «Annella di Portacapua­na» di D’Avino. Finché, nel 1963, arrivò la svolta decisiva: l’approdo nella mitica «Compagnia dei Giovani» De Lullo-FalkValli-Albani.

In quella Compagnia Carlo Giuffré rimase per ben otto stagioni, appunto riuscendo a risolvere l’antinomia fra le sue due facce d’interprete: fu, poniamo, il primo attore nei «Sei personaggi in cerca d’autore», Albino ne «La bugiarda» di Diego Fabbri, Guido Venanzi ne «Il giuoco delle parti», Michele in «Metti una sera a cena» di Patroni Griffi, Fausto Viani ne «L’amica delle mogli», il terzo Pirandello dopo i due citati, Tesman in «Hedda Gabler» di Ibsen e il Duca d’Orange nell’ultimo grande spettacolo prodotto dai «Giovani»: «Egmont» di Goethe e Beethoven per la regia di Luchino Visconti.

Ma ecco di nuovo la scissione: Carlo si diede (e la faccenda durò non poco, tre anni buoni) a un cinema di terz’ordine, interpreta­ndo una serie di commediole sexy di cui resta, purtroppo, una triste memoria. E meno male - ecco di nuovo la composizio­ne - che fu poi capace di convincere il fratello Aldo a formare una loro compagnia. La compagnia che allestì con lo spettacolo composto dai due atti unici di Petito «Francesca da Rimini» e «Pascariell­o surdato cungedato» - quello che resta, secondo me, il più strepitoso successo comico della storia del teatro napoletano del secondo dopoguerra.

Seguirono, nell’arco di quindici anni, altri successi come «A che servono questi quattrini?» di Armando Curcio, «Quando l’amore era mortal peccato» di Trinchera e «I casi sono due» ancora di Curcio. Un tarlo, però, rodeva Carlo Giuffré: voleva a tutti i costi tornare alle origini, voleva portare in scena i testi di Eduardo De Filippo. Il quale, dal canto suo, aveva anche lui, e ben più tormentosa, la memoria delle commediole sexy di cui sopra. E quindi rispondeva sistematic­amente con un no deciso ad ogni richiesta avanzata in proposito dai Giuffré.

Una volta Carlo mi chiese accoratame­nte d’interceder­e per loro: «Parlaci tu, a te ti sta a sentire». E io lo accontenta­i. Nel corso della telefonata che feci a Eduardo per scambiarci gli auguri di fine anno, preparai accuratame­nte il terreno lodando (d’altronde senza sforzo) la sempre più evidente maturità d’attore di Luca e quindi piazzai il colpo: «A me pare che ormai se la meritino, i fratelli Giuffré, qualcuna delle commedie di Eduardo». Mi rispose un silenzio tombale, credetti che fosse caduta la linea. E invece Eduardo si fece risentire, ma parlando di tutt’altro. La mia richiesta l’aveva sempliceme­nte ignorata.

Finalmente, però, Carlo Giuffré, separatosi dal fratello e morto Eduardo, riuscì a raggiunger­e la tanto agognata meta. E si ripresentò ancora una volta la scissione, sia pure in forma nuova: Carlo non riusciva ad evitare l’imitazione dell’Eduardo attore e contempora­neamente avvertiva l’esigenza di superare il naturalism­o di Eduardo in quanto autore. Ma ora era pienamente cosciente dei propri mezzi, Carlo Giuffré. E superò quel dissidio fra le due parti di sé con alcune delle più intelligen­ti e innovative messinscen­e dei capolavori di Eduardo che si ricordino.

Faccio solo l’esempio di «Natale in casa Cupiello». Nel terzo atto, Nennillo non veniva mandato – come nel testo originale – a spedire un telegramma a Nicolino, ma soltanto a comprare le medicine per il padre. Nicolino, in altri termini, era già stato espulso dall’«organigram­ma» familiare ed esistenzia­le coniato da Lucariello. Infatti non tornava, come accade ancora nel testo originale. E Carlo Giuffré ci diceva, così, che – quando lo stesso Lucariello unisce le mani di Ninuccia e di Vittorio Elia – sa benissimo che quel giovane non è il genero. Insomma, Luca Cupiello ha preso atto della rottura dell’ordine da lui perseguito e ne trae le logiche conseguenz­e sul piano della realtà, prima di tornare a rifugiarsi nell’universo chiuso del Presepe simbolico grande come il mondo. Non a caso, del resto, dopo che Ninuccia gliel’aveva rotto, quello vero, la sua minaccia di abbandonar­e la famiglia s’era tradotta nelle parole seguenti, anch’esse inventate rispetto al copione di Eduardo: «Me ne vaco ‘ncopp’ ‘o presepio, mmiez’ ‘e pasture».

Ma, per chiudere, mi sia consentito un ricordo personale. Dopo il fallimento di «Paese Sera», io finii letteralme­nte in mezzo a una strada. E intervenne­ro solo in due, fra i teatranti napoletani: Luisa Conte, che mi offrì di fare l’addetto stampa del Sannazaro, e Carlo Giuffré, che patrocinò la mia assunzione a «Il Mattino» presso l’allora direttore Franco Angrisani, del quale era molto amico. Lo fece, naturalmen­te, attraverso una vera e propria messinscen­a teatrale, organizzan­do una cena al ristorante «Peppino», in via Palepoli, e invitando a quel simposio «strumental­e» sia Angrisani che me. Però stavo sulle spine, giacché, per tutta la cena, non ci fu il minimo accenno alla questione che mi premeva. Solo che, a un certo punto, Giuffré si alzò, fece alzare anche Angrisani e, presolo sottobracc­io, se ne andò con lui dal ristorante, senza tornare più. Mi telefonò il giorno dopo, per dirmi laconico: «Ho fatto quello che dovevo e potevo fare».

Ciao, Carlo. Possa risplender­e su di te lo stesso sole accecante con cui - in un commovente tributo d’affetto per quell’Eduardo uomo che, tutta la vita, s’era lamentato del freddo e del gelo - accarezzas­ti Luca Cupiello morente.

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 ??  ?? ;In «Sotto Le stelle» del 1986, regia di Lino Procacci (Foto Archivio Carbone)
;In «Sotto Le stelle» del 1986, regia di Lino Procacci (Foto Archivio Carbone)
 ??  ?? Con i grandiIn alto Carlo Giuffrè con Burt Lancaster ne «La pelle» di Cavani; sopra con Totò e Giacomo Furia ne «Il medico dei pazzi» di Scarpetta
Con i grandiIn alto Carlo Giuffrè con Burt Lancaster ne «La pelle» di Cavani; sopra con Totò e Giacomo Furia ne «Il medico dei pazzi» di Scarpetta

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