Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Una biblioteca di alberi e una Villa malridotta
Il parco appena aperto a Porta Nuova a confronto con il nostro verde pubblico
La «Biblioteca degli alberi» di Porta Nuova è l’ennesimo progetto urbano che viene inaugurato a Milano in questo 2018. E non nascondo che ha per me un sapore decisamente amaro questo continuo raccontarvi di iniziative belle e nuove che nascono al nord e che dimostrano come le idee, con un po’ di concretezza, possano diventare realtà. Come sapete il mio è un tentativo, insignificante ma che mi impegna molto da qualche anno, di trovare tra Milano e Napoli delle connessioni capaci di agire come un defibrillatore nella realtà morente della nostra città e magari di riaccendere delle passioni intelligenti, o quantomeno un qualche senso di rivalsa. Eppure confesso che inizia a serpeggiare in me come un sentimento di sconfitta.
Avevo qualche giorno prima fatto quello che mi ero ripromesso a suo tempo di non fare mai più: una passeggiata solitaria in Villa Comunale. L’ho fatto dopo aver letto tutto di un fiato il bel libro di Paolo Macry (Napoli, nostalgia di
domani, Il Mulino) alla caccia di quegli spunti di ottimismo che le recensioni che ne avevano parlato preannunciavano.
Mi ha colpito in particolare nel libro il modo efficace con cui Macry descrive la strana sensazione che egli prova a camminare per Napoli e ritrovare nei luoghi, fin troppo conosciuti, ricordi e fatti un po’ persi nella memoria. «Talvolta – scrive Macry - ripercorrendo strade, piazze, abitazioni che batto ormai da decenni, mi viene spontaneo associarli a episodi remoti, a donne e uomini che appartengono ad altre stagioni della mia vita». Quei luoghi sono oggi spesso abbandonati, sporchi, danneggiati. Ma continuano a trasmettere, a chi li conosce bene, la realtà del tempo trascorso.
Erano anni che non attraversavo la Villa, da quando cioè avevo deciso — senza mai confessarlo apertamente, perché era una scelta che persone amiche e più competenti di me avevano invece considerato indiscutibilmente giusta e di una bellezza assoluta — che la recinzione progettata da Alessandro Mendini fosse una cosa orribile perché aveva trasformato quel luogo in uno spazio estraneo e chiuso, con tanto di razzi messi di guardia. E proprio la chiusura della Villa era la classica scelta che non potevamo permetterci a Napoli, non avendo i mezzi per manutenerla. Ricordo che appena se ne discusse emerse chiaramente che solo di costo del personale necessario alla gestione complessiva serviva più di un miliardo di lire ogni anno, cosa insopportabile per le casse del Comune. E invece l’ho fatto e sono tornato sulle mie decisioni, entrando nella Villa da un accesso secondario di Piazza Vittoria sono arrivato fino a Piazza Quatto Giornate, lungo un percorso in cui avrò incontrato al massimo quattro visitatori — ed erano le cinque del pomeriggio — e dove ho sofferto di fronte all’abbandono e allo scempio che si è fatto del luogo più importante che una città ha, ovvero il proprio parco pubblico.
Mi sono letteralmente vergognato. E non capisco come non si vergognino i napoletani tutti nel vedere in quali condizioni versino i propri giardini. Da quando storicamente sono state aperte al pubblico le straordinarie residenze e i parchi che nel passato i ricchi avevano costruito per sé, trasformandole in luoghi di aggregazione sociale e di contemplazione della natura anche per la gente comune, le comunità hanno considerato i parchi pubblici un monumento di democrazia. Luoghi di incontro, di spensieratezza, di riposo e contemplazione, insomma di cultura, una ricompensa per chi aveva lavorato sodo. Nella nostra Villa avevano nei decenni trovato posto il più importante centro di ricerca sulla vita del mare, la Cassa Armonica per i concerti della domenica, decine di mirabili fontane, le statue dei nostri concittadini più illustri (primo fra tutti quello di un corrucciato Gian Battista Vico), il Circolo della Stampa disegnato da Cosenza.
Oggi la Villa è un ammasso di cose abbandonate e polverose, chiuse da due inutili cantieri di una linea tranviaria sotterranea che scaviamo senza sosta da oltre trent’anni. Alcune di esse sono sparite e finite chissà dove, come la Cassa Armonica. Lungo il percorso ho contato cinque tipologie diverse di pavimentazione (asfalto, cemento, ghiaia, polvere di tufo battuto, fango rappreso), decine di piante morte stecchite dopo un’estate in cui nessuno ha pensato bene di dare loro un po’ di acqua, erba alta 60 centimetri.
La visita alla «Biblioteca degli alberi» sorta a Milano ai piedi del Bosco Verticale nel quartiere di Porta Nuova è stata un’immersione in un mondo antitetico rispetto a quello della nostra Villa: un posto pieno di persone che passeggiano, leggono, imparano, giocano, e soprattutto privo di recinzioni. 500 alberi e oltre 100mila piante sistemati lungo percorsi vari per suggerire che la natura ha molte cose da dire e da insegnare, e per questo l’hanno chiamata «biblioteca». Gli esseri umani devono fare solo una cosa, rispettarla. Come si rispetta la vita, la cultura, i diversi da te, i più deboli, tutto ciò che insomma consente a te di essere quello che sei.
È un parco pubblico affidato ad un privato — la Fondazione Catella — che investe ogni anno 3 milioni di euro. Riccardo Catella è stato prima l’architetto e poi l’investitore che ha dato inizio con la sua ambizione visionaria a tutto quello che è successo in questi anni nel quartiere di Porta Nuova, la più grande e meglio riuscita operazione di sviluppo immobiliare e urbanistico del Paese. Gli eredi hanno deciso di ricordare il loro genitore visionario con un parco dalla moderna concezione. È un «bene comune» offerto a tutti, di cui tutti possono godere la bellezza e la praticità. Nel confronto tra Milano e Napoli, sfido chiunque a giudicare quale dei due sia la risposta giusta.
Questo giornale ha nei giorni scorsi condotto e vinto una battaglia legittima contro una scelta come quella di sistemare delle griglie di areazione della linea 6 (proprio la stessa che devasta da anni con i suoi cantieri la Villa Comunale) tra i basoli di Piazza del Plebiscito. In una città alla deriva si è aperto subito un dibattito infinito sul valore simbolico di questa battaglia: una vittoria per chi riteneva uno scempio tale scelta o una sconfitta perché così a Napoli non cambia mai niente? Ecco, invito entrambe le parti in causa a volgere ora lo sguardo un paio di chilometri più in là, direzione Mergellina. E sinceramente chiedo a tutti gli interessati: possiamo considerare una vittoria impedire un danno di 25 metri quadrati nella pavimentazione di Piazza Plebiscito quando assistiamo indifferenti da anni alla distruzione di 150mila metri quadrati di parco pubblico nel cuore della città? Possiamo accettare un’opera pubblica sostanzialmente inutile, perché tutti sanno che è antieconomica al punto tale che nessuno vuole gestirla e soprattutto nessuno ha voluto scommetterci un euro con capitali di rischio? Siamo proprio sicuri che per una infrastruttura che nessuno mai userà, dobbiamo sfregiare la città e tenerla sotto ricatto senza poter mai dire la verità, e cioè che quel buco andrebbe chiuso e lasciato lì, sperando che nei prossimi anni possa servire a qualcosa?
Chiudere quei cantieri almeno nel frattempo servirà a liberare la Villa Comunale, primo tassello per la sua rinascita.