Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«Così stai uccidendo me e la mia famiglia»
NAPOLI «Noi non ce ne usciamo. Non finirà qua. Purtroppo non finirà qua, già lo so»: era terrorizzato l’architetto titolare, assieme al suocero, dell’impresa taglieggiata dal clan Orlando. In molte telefonate intercettate esternava le sue preoccupazioni, salvo poi negare qualsiasi forma di pressione quando veniva convocato dal pm. Il professionista era felice quando qualche affiliato al clan finiva in carcere («Il porco lo hanno arrestato prima; figli di p..., perché non li ammazzano proprio... Fanno bene che li stanno battendo in testa»). Tuttavia non ha collaborato in alcun modo alle indagini: «Non è detto che io devo avere il coraggio che tieni tu che fai la guardia, no? Perché tu hai scelto tu di fare la guardia e se devi fare la guardia significa che tu il coraggio lo devi tenere per forza. Come la vedo io, se tu sei guardia e a questo lo acchiappi, tu a noi che stiamo fuori da questa situazione, perché teniamo i figli qua, teniamo le mogli, teniamo i parenti... Cioè tu a me significa che non mi vuoi far vivere più. Tu il mestiere tuo lo sai fare? E io lo so che questo lavoro lo sai fare, ma a noi non ci devi mettere proprio in mezzo. Cioè, sai che quello è ladro, acchiappalo sul fatto, ma non perché poi per sentito dire».
L’ossessione era quella di una ritorsione. Rivolgendosi idealmente agli inquirenti l’architetto infatti diceva: «Tu stai avendo il c... tuo, ma a me e alla famiglia mia mi stai ammazzando. Perché tu che ne sai che quello tra sette, dieci, vent’anni esce di galera e dice: io mi voglio fare altri trent’anni di galera, però a questo gli devo sparare. Per loro la casa loro è la galera. Loro che se ne fottono: escono e ti sparano. O ti fanno il dispetto, ti incendiano la casa oppure ti fanno un guaio... Se una figlia femmina... Cioè ti possono fare qualsiasi cosa».