Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il ragazzo e la donna Un teorema d’amore
Erano gli anni ‘70. Sull’onda degli ultimi fatti il ragazzo e i suoi sodali avevano montato un banchetto per la raccolta delle firme e improvvisato, contestualmente, un serrato volantinaggio (quei fogli ciclostilati di grana grossa che inchiostravano le mani...). L’emiciclo di Piazza Dante, con il suo traffico mediorientale e l’attestamento degli autobus per la prima cintura, veniva considerato dagli attivisti come un quadrante di territorio sufficientemente protetto. Ciò nonostante il raid delle fazioni nemiche, ai tempi, era una spada di Damocle posata sulla giugulare. All’improvviso potevi vedere lo sgranarsi a passo di carica di altri tuoi coetanei che mulinavano spranghe; caschi e fazzoletti a travisarne le facce, ma non gli occhi rabbiosi...
Il ragazzo, quel giorno, l’avevano dislocato di vedetta, a tenere d’occhio lo scorcio di via Pessina. Un compito tutto sommato elementare: avvistare il profilarsi di un pericolo e allarmare, per tempo, i suoi consimili. Un compito elementare e fiduciario, nello stesso tempo. Il ragazzo, quella mattina, se ne sentiva impari. Probabilmente a causa delle gambe molli e della testa deconcentrata, a tratti offuscata. Aveva dormito poco o niente, la notte prima. La sua prima notte con una donna adulta. Già: aveva dovuto tastarsi braccia e fianchi, il ragazzo, per assicurarsi che tutto accadesse nella realtà, non in quei sogni ancora adolescenziali che sfociavano in polluzioni simili a svenimenti nel sonno.
Una donna adulta, dall’ascendente regale. La trentaseienne favoleggiata come un’araba fenice nei discorsi sconci – e segretamente impauriti – fra amici (la donna, all’epoca, era un continente misterioso. Come oggi, del resto. Solo che, al tempo, si aveva coscienza del proprio status di esploratori senza mappe affidabili).
Lui l’aveva posseduta corporalmente, per intero; non con quei petting fra diciottenni che ti sfamavano a metà. Il ragazzo l’aveva presa – meglio: lei si era regalmente data – eppure non riusciva a gloriarsene con nessuno, meno che mai con se stesso. E non solo perché lui si atteggiava a cavaliere medievale dedito al culto dell’onore e, dunque, del tacere. Confessalo, ragazzo: con quella donna dalle magnifiche forme, il cui sguardo sapeva impietrire come una Gorgone, non era andata benissimo. Non un’impresa di cui vantarsi più che tanto, in definitiva. E nel frattempo, come se non bastasse questo rammarico, un uomo ben vestito oltre i cinquanta aveva preso a curiosare, in modo equivoco, intorno al banchetto. Il ragazzo, un giovane falco arruffato, ne seguiva attento le evoluzioni in apparenza svagate, in realtà studiatissime. Il modo in cui quell’uomo leggiucchiava il ciclostilato. La sua barba sale e pepe a contornare una bocca dal disegno regolare, energico. Quei capelli ondulati dall’attaccatura alta, ribelli al pettine da sempre. Forse, si disse il ragazzo, era solo un tiepido simpatizzante del Partito, poco disposto a compromettersi. Un perbenista innocuo. Viceversa gli occhi di quella donna, la trentaseienne che il ragazzo si era illuso di aver conquistato, erano tutt’altro che innocui: rapaci, casomai. Era lei il falco da grandi altezze, casomai. Domenica era stato un errore vedersi. Anche se, inizialmente, i momenti sul pontile di Nisida erano sembrati intrisi di un romanticismo notturno, più struggente che disperato. Avevano perfino bevuto dalla stessa bottiglia di vino, a canna. Lei non lo faceva dai tempi dell’Università. Ed era meravigliosamente ringiovanita nell’anima e nel sorriso per quello. Per il fatto che ognuno aveva posato le labbra sull’impronta umida lasciata dalla bocca dell’altro. Un rituale che mimava, anticipava, ritardava il bacio. Il bacio lungo che si era consumato poco dopo, mentre si alzava un lieve vento notturno, salmastro e ferroso. Il ragazzo l’aveva baciata con l’unico modo divorante che conosceva e, in fondo, gli era consono. Un modo che — a quella donna fatta, sapiente — toglieva letteralmente il fiato, la riserva di ossigeno per ragionare, per pilotare una situazione così arrischiata. Avvolta, per di più, in un’atmosfera che non le lasciava scampo. Le luci che punteggiavano la linea di costa. L’acciaieria che, come un vulcano silenzioso, rosseggiava nella notte. Il sangue stesso del ragazzo si era tramutato in una colata incandescente che la donna non aveva saputo maneggiare (lei, lei che avrebbe voluto forgiarlo con la propria sagacia erotica...). Alla fine quella donna, agli occhi del ragazzo ses-
” Ora quello sconosciuto lo studiava da sopra il bordo del volantino Come se volesse imprimersi in testa la fisionomia di questo diciannovenne.
suata e sensuale più di ogni altra, forse per vanità si era lasciata convincere a rinchiudersi in un alberghetto per coppie, non lontano eppure lontano in modo siderale dal vento salsedinoso, dalla risacca che spumava alla base del pontile e lo faceva echeggiare da un’estremità all’altra.
Il ragazzo si riscosse: una piccola scarica, come proveniente da un elettrodo, lo stava avvertendo che il cinquantenne di prima lo aveva isolato, con lo sguardo, in mezzo agli altri attivisti. Ora quello sconosciuto lo studiava da sopra il bordo del volantino. Come se volesse imprimersi in testa, una volta per tutte, la fisionomia di questo diciannovenne. La corporatura flessibile e asciutta, da ragazzo appunto. I suoi capelli lunghi e crespi, quei capelli per i quali la donna stravedeva.
«Chi cazzo è questo?», si chiese il ragazzo. Un funzionario della Digos, con il suo corretto soprabito da burocrate. Un provocatore, ben camuffato, dell’altra parte politica. Però un provocatore o uno sbirro non avrebbero mai avuto uno sguardo così amaro. Almeno in questo ci rassomigliamo, si disse il ragazzo. Domenica sera, nell’alberghetto, lui aveva penetrato quella donna con una veemenza che si pretendeva agguerrita. Un assalto da ariete che non aveva sortito effetti dentro il corpo luminoso di lei. Quando si erano abbattuti, esausti e insoddisfatti ognuno dalla propria parte di letto, lei gli aveva fatto, roca: «Sembri un martello che batte un chiodo». Il ragazzo era divenuto acuminato come un istrice. Anche ora sospingeva all’infuori gli aculei. Lo sconosciuto sembrava combattuto fra l’avvicinarsi e il tornare indietro, demoralizzato. Come il ragazzo la notte prima quando la donna, in una camera ormai priva di ossigeno, gli aveva accennato ad una sua relazione in corso.
«Com’è fatto il tuo amico?», l’aveva pressata lui, incattivito e fragile. Quell’uomo, più vicino ai sessanta che ai cinquanta, esattamente come lo sconosciuto titubante a pochi metri possedeva mani grandi, venose, bellissime.