Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il ragazzo e la donna Un teorema d’amore

- Di Vladimiro Bottone a pagina

Erano gli anni ‘70. Sull’onda degli ultimi fatti il ragazzo e i suoi sodali avevano montato un banchetto per la raccolta delle firme e improvvisa­to, contestual­mente, un serrato volantinag­gio (quei fogli ciclostila­ti di grana grossa che inchiostra­vano le mani...). L’emiciclo di Piazza Dante, con il suo traffico mediorient­ale e l’attestamen­to degli autobus per la prima cintura, veniva considerat­o dagli attivisti come un quadrante di territorio sufficient­emente protetto. Ciò nonostante il raid delle fazioni nemiche, ai tempi, era una spada di Damocle posata sulla giugulare. All’improvviso potevi vedere lo sgranarsi a passo di carica di altri tuoi coetanei che mulinavano spranghe; caschi e fazzoletti a travisarne le facce, ma non gli occhi rabbiosi...

Il ragazzo, quel giorno, l’avevano dislocato di vedetta, a tenere d’occhio lo scorcio di via Pessina. Un compito tutto sommato elementare: avvistare il profilarsi di un pericolo e allarmare, per tempo, i suoi consimili. Un compito elementare e fiduciario, nello stesso tempo. Il ragazzo, quella mattina, se ne sentiva impari. Probabilme­nte a causa delle gambe molli e della testa deconcentr­ata, a tratti offuscata. Aveva dormito poco o niente, la notte prima. La sua prima notte con una donna adulta. Già: aveva dovuto tastarsi braccia e fianchi, il ragazzo, per assicurars­i che tutto accadesse nella realtà, non in quei sogni ancora adolescenz­iali che sfociavano in polluzioni simili a svenimenti nel sonno.

Una donna adulta, dall’ascendente regale. La trentaseie­nne favoleggia­ta come un’araba fenice nei discorsi sconci – e segretamen­te impauriti – fra amici (la donna, all’epoca, era un continente misterioso. Come oggi, del resto. Solo che, al tempo, si aveva coscienza del proprio status di esplorator­i senza mappe affidabili).

Lui l’aveva posseduta corporalme­nte, per intero; non con quei petting fra diciottenn­i che ti sfamavano a metà. Il ragazzo l’aveva presa – meglio: lei si era regalmente data – eppure non riusciva a gloriarsen­e con nessuno, meno che mai con se stesso. E non solo perché lui si atteggiava a cavaliere medievale dedito al culto dell’onore e, dunque, del tacere. Confessalo, ragazzo: con quella donna dalle magnifiche forme, il cui sguardo sapeva impietrire come una Gorgone, non era andata benissimo. Non un’impresa di cui vantarsi più che tanto, in definitiva. E nel frattempo, come se non bastasse questo rammarico, un uomo ben vestito oltre i cinquanta aveva preso a curiosare, in modo equivoco, intorno al banchetto. Il ragazzo, un giovane falco arruffato, ne seguiva attento le evoluzioni in apparenza svagate, in realtà studiatiss­ime. Il modo in cui quell’uomo leggiucchi­ava il ciclostila­to. La sua barba sale e pepe a contornare una bocca dal disegno regolare, energico. Quei capelli ondulati dall’attaccatur­a alta, ribelli al pettine da sempre. Forse, si disse il ragazzo, era solo un tiepido simpatizza­nte del Partito, poco disposto a compromett­ersi. Un perbenista innocuo. Viceversa gli occhi di quella donna, la trentaseie­nne che il ragazzo si era illuso di aver conquistat­o, erano tutt’altro che innocui: rapaci, casomai. Era lei il falco da grandi altezze, casomai. Domenica era stato un errore vedersi. Anche se, inizialmen­te, i momenti sul pontile di Nisida erano sembrati intrisi di un romanticis­mo notturno, più struggente che disperato. Avevano perfino bevuto dalla stessa bottiglia di vino, a canna. Lei non lo faceva dai tempi dell’Università. Ed era meraviglio­samente ringiovani­ta nell’anima e nel sorriso per quello. Per il fatto che ognuno aveva posato le labbra sull’impronta umida lasciata dalla bocca dell’altro. Un rituale che mimava, anticipava, ritardava il bacio. Il bacio lungo che si era consumato poco dopo, mentre si alzava un lieve vento notturno, salmastro e ferroso. Il ragazzo l’aveva baciata con l’unico modo divorante che conosceva e, in fondo, gli era consono. Un modo che — a quella donna fatta, sapiente — toglieva letteralme­nte il fiato, la riserva di ossigeno per ragionare, per pilotare una situazione così arrischiat­a. Avvolta, per di più, in un’atmosfera che non le lasciava scampo. Le luci che punteggiav­ano la linea di costa. L’acciaieria che, come un vulcano silenzioso, rosseggiav­a nella notte. Il sangue stesso del ragazzo si era tramutato in una colata incandesce­nte che la donna non aveva saputo maneggiare (lei, lei che avrebbe voluto forgiarlo con la propria sagacia erotica...). Alla fine quella donna, agli occhi del ragazzo ses-

” Ora quello sconosciut­o lo studiava da sopra il bordo del volantino Come se volesse imprimersi in testa la fisionomia di questo diciannove­nne.

suata e sensuale più di ogni altra, forse per vanità si era lasciata convincere a rinchiuder­si in un alberghett­o per coppie, non lontano eppure lontano in modo siderale dal vento salsedinos­o, dalla risacca che spumava alla base del pontile e lo faceva echeggiare da un’estremità all’altra.

Il ragazzo si riscosse: una piccola scarica, come provenient­e da un elettrodo, lo stava avvertendo che il cinquanten­ne di prima lo aveva isolato, con lo sguardo, in mezzo agli altri attivisti. Ora quello sconosciut­o lo studiava da sopra il bordo del volantino. Come se volesse imprimersi in testa, una volta per tutte, la fisionomia di questo diciannove­nne. La corporatur­a flessibile e asciutta, da ragazzo appunto. I suoi capelli lunghi e crespi, quei capelli per i quali la donna stravedeva.

«Chi cazzo è questo?», si chiese il ragazzo. Un funzionari­o della Digos, con il suo corretto soprabito da burocrate. Un provocator­e, ben camuffato, dell’altra parte politica. Però un provocator­e o uno sbirro non avrebbero mai avuto uno sguardo così amaro. Almeno in questo ci rassomigli­amo, si disse il ragazzo. Domenica sera, nell’alberghett­o, lui aveva penetrato quella donna con una veemenza che si pretendeva agguerrita. Un assalto da ariete che non aveva sortito effetti dentro il corpo luminoso di lei. Quando si erano abbattuti, esausti e insoddisfa­tti ognuno dalla propria parte di letto, lei gli aveva fatto, roca: «Sembri un martello che batte un chiodo». Il ragazzo era divenuto acuminato come un istrice. Anche ora sospingeva all’infuori gli aculei. Lo sconosciut­o sembrava combattuto fra l’avvicinars­i e il tornare indietro, demoralizz­ato. Come il ragazzo la notte prima quando la donna, in una camera ormai priva di ossigeno, gli aveva accennato ad una sua relazione in corso.

«Com’è fatto il tuo amico?», l’aveva pressata lui, incattivit­o e fragile. Quell’uomo, più vicino ai sessanta che ai cinquanta, esattament­e come lo sconosciut­o titubante a pochi metri possedeva mani grandi, venose, bellissime.

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Foto di Robert Doisneau

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