Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«Io, operaio licenziato in tronco dopo aver lavorato per metà al nero»
Mimmo Sposito e il ricorso contro l’Ardima. Il balletto delle date
BRUSCIANO Ormai lo studio dell’avvocato Ignazio Sposito, che ha seguito il ricorso di Mimmo Sposito (è solo un caso di omonimia), nello stradone principale di Brusciano è preso d’assalto dai cronisti. Dopo i particolari inediti pubblicati dal Corriere del Mezzogiorno e dal Corriere della Sera fari puntati sulla causa che l’ex operaio della Ardima costruzioni intentò nel 2011 (ma la prima udienza è del 2013) contro Paolina Esposito, la mamma di Luigi Di Maio titolare dell’impresa edile. Ricorso tra l’altro perso nel 2016 dinanzi al got di Nola Walter Di Nunzio. L’appello si terrà nel 2020. Perché le date sono importanti in questa vicenda? Perché di fatto la causa è ancora in corso. La Ardima costruzioni cambia pelle nel 2013 quando Paolina Esposito cede le quote ai figli, Luigi e Rosalba. E insieme alle quote anche le cause in corso. Compresa questa dell’ex operaio, Sposito, licenziato in tronco il 23 settembre del 2011, che avrebbe lavorato full time e avuto uno stipendio part time e una parte in nero. Procedimento chiuso, in prima istanza, nel 2016, cioè quando Di Maio era vicepresidente della Camera. Quindi aveva già un ruolo di rilievo. L’attuale vicepremier e ministro del Lavoro in una lettera al Corsera precisa e conferma quanto scritto. «La causa presentata da un dipendente è contro la vecchia ditta di famiglia (in cui io non c’ero) e tra l’altro dà ragione a mio padre in pieno, in primo grado. Una causa che si trasferisce alla seconda azienda nata nel 2013 come tutti i crediti, debiti, dotazioni e beni strumentali». Scrive Di Maio. Quindi sapeva della causa di lavoro contro la sua famiglia, in cui hanno testimoniato altri due ex dipendenti, Salvatore Pizzo e Giovanni La Marca, che hanno dichiarato di non essere inquadrati regolarmente.
Il ricorso
Ma cosa c’era scritto nell’istanza di ricorso contro Ardima costruzioni? Cosa diceva Mimmo Sposito? E perché nonostante la società fosse intestata alla mamma di Di Maio, in aula testimoniò il papà Antonio? Presto detto: «Il ricorrente (cioè l’ex operaio) quotidianamente svolgeva la sua opera lavorativa sotto il diretto controllo e la direzione del marito della titolare della ditta, tale geometra Di Maio, in altre parole era Di Maio a comunicare giornalmente all’odierno ricorrente le attività lavorative che quest’ultimo era tenuto ad espletare, acquisendo la veste di coordinatore dei lavori, dal momento che lo stesso presenziava sempre sui luoghi di lavoro e si interessava altresì di erogare il pagamento delle spettanze in favore del ricorrente».
La tesi d’accusa
Il ricorso si fonda sul fatto che a fronte di una busta paga parttime, l’ex operaio, invece, lavorasse l’intera giornata. Tesi confermata nell’udienza del 2013 dai testimoni di Sposito, cioè Pizzo e La Marca, nonché dallo stesso Di Maio. «La giornata lavorativa doveva durare, come da contratto individuale di lavoro allegato quattro ore per un totale di 20 ore settimanali ma in realtà mediamente non meno di dieci ore, dalle 7.30 alle 17.30, dal lunedì al venerdì e spesse volte anche al sabato con concessione di circa 30 minuti per la consumazione della colazione a sacco: ad essere più precisi i luoghi presso i quali si lavorava erano ubicati nelle varie zone di Napoli e del vesuviano, l’attività lavorativa veniva svolta o presso interi stabili (condomini) o presso singoli appartamenti di proprietà di privati. Il marito della titolare (Antonio Di Maio) presenziava sempre sul luogo di lavoro, anzi, ad essere più precisi era lui stesso a dare via via le indicazioni tecniche ai suoi operai compreso il ricorrente».
Il licenziamento
Il 23 settembre del 2011 Domenico Sposito viene licenziato in tronco, «senza motivi». Non solo in tutto il periodo di lavoro (dal 2008 al 2011) l’ex operaio, oggi trasferito al Nord, «non si è visto corrispondere alcunché a titolo di ferie non godute, tredicesima, mensilità, Tfr e indennità di mancato preavviso maturando pertanto un credito di 40 mila 414».
Nonostante le testimonianze, in qualche modo, confermino quanto detto da Sposito, il ricorso viene rigettato. La causa è persa perché non ha fornito un’adeguata prova. Ora la parola passerà alla Corte d’appello di Napoli. Ma nel 2020.
” Pagato part time per venti ore alla settimana ma in realtà si lavorava dieci ore al giorno sotto il coordinamento del marito della titolare