Corriere del Mezzogiorno (Campania)
RILANCIO, DAL SUD AL «SUV»
C’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico, vien da dire parafrasando L’aquilone, di Giovanni Pascoli, nel riportare l’Alfa a Pomigliano. Una qualche forma di ritorno alle origini, per quanti, oggi con i capelli bianchi e con i segni del tempo, vissero quella storica stagione dell’Alfasud, che cominciò a produrre automobili nel lontano 1972 nel grande stabilimento industriale del gruppo Iri, alle porte di Napoli. Come non ricordare quelle vetture così innovative ma al tempo stesso così particolari e uniche nel loro genere, che pure ebbero un successo insperato nei primi anni sul mercato? Ma soprattutto sovviene la memoria di quegli operai che spesso in tarda età indossarono per la prima volta la mitica tuta blu per lavorare alla catena di montaggio. Cipputi per caso, quasi per fatalità, perché molti di loro erano agricoltori e tali rimasero, e i dirigenti venuti da Torino e da Milano si meravigliavano che nei giorni di semina e di raccolta nei campi non andassero in fabbrica, mentre per quegli uomini, contadini prestati all’industria, era del tutto normale. L’intuizione dei top manager dell’Iri, di Giuseppe Luraghi, in particolare, fu che, solo costruendo un grande stabilimento meccanico in quello che allora era definito il profondo Sud, sarebbe stato possibile arginare l’emigrazione di quegli anni, quella con la valigia di cartone, ben diversa da quella intellettuale di oggi, che faceva esplodere le periferie e le cinture milanesi e torinesi.
Con l’avvento della Fiat nel 1986, quando la Finmeccanica del gruppo Iri fu costretta a vendere per motivi finanziari, le cose cambiarono radicalmente e Pomigliano divenne solo uno dei tanti stabilimenti del colosso dell’automobile in Italia.
Oggi, quasi per miracolo, se non fosse che dietro il nuovo piano industriale dei dirigenti succeduti a Sergio Marchionne, ci sono scelte ben precise, e per molti versi condivisibili, il nuovo si sovrappone all’antico, rivalutando le origini. Il suv compatto dell’Alfa Romeo che sarà costruito nello stabilimento riporta a casa il marchio storico attorno al quale era nata l’Alfasud. Puntando su un veicolo di utilità sportiva che oggi ha un suo mercato anche in Italia, e che è nel Dna della Chrysler.
Una strategia che valorizza marchi di un tempo ma al tempo stesso li rende funzionali a politiche industriali rivolte al futuro, puntando finalmente sull’alimentazione ibrida e, soprattutto, sui motori elettrici, dopo il tramonto, testimoniato negli ultimi mesi, del diesel. Non a caso nella Pomigliano che mantiene circa 4800 dipendenti, resta, ma solo dopo un indispensabile restyling, la Panda, di cui dal prossimo anno sarà prodotta anche una versione ibrida. La scommessa sull’elettrico, dopo l’era Marchionne, sarà giocata in particolare nelle altre fabbriche meridionali, a Melfi, con le due Jeep, Renegade e Compass, e a Cassino, con la versione elettrica dello Stelvio, della Giulia e del suv Maserati Uv.
Ciò che colpisce positivamente è l’opzione di politica industriale verso il Mezzogiorno di uno dei poli mondiali più agguerriti dell’auto, che apre uno spiraglio di luce non solo per l’occupazione ma anche per la rinascita economica di un’area, la cui uscita dal sottosviluppo ha bisogno di una crescita imprenditoriale moderna e diffusa.