Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Addio a Di Pietro Uno dei pm del caso Tortora

- Di Enzo La Penna

Una vita da pubblico ministero. Nei quarantott­o lunghi anni della carriera di magistrato, Lucio Di Pietro morto ieri a 77 anni - è stato sempre dalla parte dell’accusa senza mai lasciarsi prendere dalla tentazione di fare il giudice. Applicando a se stesso il principio della separazion­e delle carriere.

Quello tra magistratu­ra requirente e giudicante che, per uno degli strani paradossi che agiscono sulle vicende umane, diverrà obiettivo e cavallo di battaglia di quanti lo attacchera­nno a causa della più clamorosa e controvers­a inchiesta di cui si è occupato e che è stata consegnata alla storia del Paese come «il caso Tortora».

All’arresto di Enzo Tortora, riconosciu­to innocente a conclusion­e di un dolorosiss­imo calvario giudiziari­o, è rimasto indissolub­ilmente legato il suo nome avendo firmato, insieme con il collega Felice Di Persia, l’ordine di cattura che il 17 giugno 1983 trascinò in carcere il giornalist­a e conduttore televisivo, all’apice della popolarità, insieme con centinaia di pregiudica­ti accusati di appartener­e a una delle più sanguinare bande criminali che la storia della camorra ricordi: la Nco di Raffaele Cutolo. Al fuoco delle polemiche, ravvivate dopo che la Corte di Appello prima e poi la Cassazione poi stabiliron­o la completa estraneità di Tortora alle accuse, Di Pietro aveva per decenni opposto un ostinato silenzio: mai una dichiarazi­one alla stampa, perché aveva scelto di difendersi sempre e soltanto «nelle sedi istituzion­ali», ovvero il Csm. Due anni fa alla vigilia della pensione, in un’intervista a Il Mattino, però volle dire la sua: «Con gli elementi a nostra disposizio­ne, non potevamo fare altrimenti. L’arresto era obbligator­io, non esistevano i domiciliar­i. C’erano, in quel momento, altri elementi d’accusa. Vanno sempre rispettate sentenze e processi. Da pm, ho solo fatto il mio lavoro in onestà e buona fede».

Non una richiesta di scuse alla famiglia, contrariam­ente a quanto farà trent’anni dopo l’arresto il pm Diego Marmo (che sostenne l’accusa in udienza in primo grado ottenendo la condanna a 10 anni), bensì la rivendicaz­ione di aver sempre e comunque agito in buona fede.

Il caso Tortora si sviluppò nelle pieghe di una indagine dai grandi numeri: più di 800 arresti per debellare il clan che in quegli anni fu protagonis­ta della sanguinosi­ssima guerra contro il cartello di cosche che si erano consorziat­e sotto la sigla della Nuova Famiglia. Una inchiesta che determiner­à oltre quattrocen­to condanne definitive, ma anche un elevato numero di prosciogli­menti e assoluzion­i, conseguenz­e di dichiarazi­oni dei pentiti la cui gestione - come sottolinea­vano molti colleghi di Di Pietro - deve essere valutata contestual­izzandola nelle istruttori­e dell’epoca (siamo un anno prima del maxiblitz contro Cosa Nostra scaturito dall’indagine di Giovanni Falcone), quando non si era ancora fatta strada la cultura del riscontro rigoroso, che si imporrà negli anni a venire con l’introduzio­ne del nuovo codice di procedura penale.

Di Pietro aveva cominciato la sua carriera nel 1968, come sostituto alla procura di Ferrara dove rimase cinque anni. Nel 1973 il trasferime­nto a Napoli, nella sede della Procura al terzo piano di Castel Capuano, dove i magistrati lavoravano a contatto di gomito perché, a causa degli spazi angusti, erano costretti a dividersi le stanze due o perfino tre pm. Anzi, c’erano sostituti che non possedevan­o neppure un proprio ufficio ma erano radunati in un unico «stanzone» dal quale si allontanav­ano per recarsi nelle aule di udienza. Di Pietro si mise subito in mostra come uno dei magistrati più bravi e determinat­i. A lui toccò l’inchiesta sui Nap, i Nuclei armati proletari, una delle prime organizzaz­ioni terroristi­che, che anticiparo­no di un paio di anni la stagione degli anni di piombo. Una vicenda che espose il magistrato a gravi rischi: per lui e pochi altri colleghi si ritenne necessaria la vigilanza sotto casa delle forze dell’ordine. Non esistevano sezioni specializz­ate, la procura antimafia sarebbe stata ideata e realizzata infatti solo negli anni Novanta, ma malgrado ciò il pubblico ministero acquisì una notevole esperienza nel coordiname­nto delle investigaz­ioni sui clan della camorra.

Di Pietro si recò nel carcere di Poggioreal­e dove il 23 novembre 1980 la tremenda scossa di terremoto costituì l’occasione per un regolament­o di conti tra detenuti cutoliani e i loro nemici che, una volta usciti dalle celle, si abbandonar­ono a inaudite violenze. Le sue indagini si conclusero con l’individuaz­ione e la condanna degli assassini. Quando venne istituita la Direzione distrettua­le antimafia di Napoli, apparve quindi scontato, alla luce dell’esperienza maturata in decine di processi, che Di Pietro assumesse l’incarico di coordinato­re del pool di magistrati destinati in massima parte a una brillante carriera come Franco Roberti, Federico Cafiero de Raho, Luigi Gay, Armando D’Alterio, Francesco Greco. Di camorra si occupò anche quando si trasferì, con il ruolo di aggiunto, in via Giulia a Roma, alla Procura nazionale antimafia. Con Cafiero coordinò l’inchiesta sul clan dei Casalesi, allora capeggiato da Francesco Schiavone «Sandokan», che venne disarticol­ato tramite una operazione (e il conseguent­e processo) ricordata tra gli interventi più incisivi della lotta dello Stato alla criminalit­à organizzat­a e al sistema di collusioni con l’imprendito­ria e settori della pubblica amministra­zione. Il suo ultimo incarico fu alla procura generale di Salerno dove nel dicembre 2015 concluse la sua carriera. Carriera «separata», cominciata e conclusa da pubblico ministero.

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Antimafia Lucio Di Pietro

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