Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Bellezza in toga e calendario che indignano i principi del foro

- di Franco Di Mare

Nelle sale del museo archeologi­co di Napoli c’è la più bella statua del mondo, secondo me. È la venere callipigia, che è conosciuta anche come Afrodite dalle Belle natiche (kalòs=bello, pygos=natica). Gli archeologi la ritrovaron­o nel corso degli scavi di Pompei non lontano dalla Domus Aurea. La statua rappresent­a una giovane donna che scosta il peplo, la veste che la ricopre, per ammirare le sue forme nell’acqua di uno stagno, il che fece ritenere agli studiosi che probabilme­nte la statua fosse collocata vicino a una fontana o a una piscina. Da duemila anni le sue forme perfette costituisc­ono il riferiment­o della bellezza classica. È quella la vera bellezza? E chi può affermarlo con decisione? Ciascuno può dire il suo, come ci ha insegnato Umberto Eco (che, al concetto di bello ha dedicato un formidabil­e saggio, «storia della Bellezza») poiché i parametri sono ancorati ai tempi, ai luoghi e alle culture che li esprimono.

La venere di Willendorf, ad esempio, che è una statuetta di 11 centimetri, ritrovata sulle rive del Danubio agli inizi del secolo, rappresent­a una donna dell’età paleolitic­a, vale a dire di 25, 26mila anni fa alla quale oggi suggerirem­mo di recarsi da un endocrinol­ogo per avviare delle cure serie e una dieta rigorosa.

Insomma, è impossibil­e definire il bello assoluto, ma è inevitabil­e che la bellezza costituisc­a il faro dei nostri desideri, in certi casi la pietra angolare delle nostre vite, mistero assoluto e aspirazion­e di molti, come filosofia di vita e di perfino di armonia di gioco (ricordate l’aspirazion­e di Sarri alla bellezza?).

Noi esseri umani siamo creature estetiche prima che etiche, diceva il poeta Joseph Brodskij. Al foro di Napoli pare che non la pensino così. È ancora vivo il coro di polemiche che ha accompagna­to la pubblicazi­one di un calendario voluto dall’avvocato Sergio Pisani, realizzato con il nobile intento di raccoglier­e fondi per l’associazio­ne save the children. Qual è la questione? Che il calendario propone le foto di dodici bellissime principess­e del foro. Verrebbe da chiedersi: ma in quali pose sono state ritratte? Erano in abiti succinti?

Niente di tutto questo: indossavan­o tutte la toga e questa è stata la pietra dello scandalo. Ma come? Usare la toga per fare un calendario? Significa disonorarn­e il significat­o, offenderla. È quello che ha detto il cassazioni­sta Gaetano Perna a Roberto Russo, che ne ha raccolto una risentita dichiarazi­one sulle pagine di questo giornale. Francament­e mi sembrano dichiarazi­oni eccessive, forse alimentate dal clima infuocato della campagna elettorale per il rinnovo dell’ordine forense (si voterà a Gennaio). Cosa c’è di disdicevol­e nel farsi fotografar­e con la toga per una nobile, anzi nobilissim­a causa, quella del sostegno all’infanzia abbandonat­a, violata e sfruttata? Molti delle avvocate ritratte sono madri e alcune di loro direttamen­te impegnate, con la loro expertise, nella difesa dei minore da violenze e vessazioni nelle aule dei tribunali.

Fatichiamo a vedere dove sia stata violata la sacralità della toga. Nella città che è stata la culla della civiltà forense nazionale, chi scrive, da giovane cronista di giudiziari­a ha visto in ben altre occasioni la toga umiliata. Durante il processo a Raffaele Cutolo, nell’aula bunker costruita appositame­nte per ospitare il più grande processo alla camorra dall’Ottocento ai giorni nostri, accadevano cose inverosimi­li, ai limiti della decenza. A chiedere di mettere un freno a quella vergogna fu Ciro Paglia, uno dei migliori giornalist­i di quegli anni, che sulle pagine del suo giornale scrisse un leggendari­o articolo di fondo dal titolo «Ora basta»: gli imputati facciano gli imputati, i magistrati facciano i magistrati e gli avvocati facciano gli avvocati, chiese Paglia. Il processo aveva assunto un clima da suk, con Michele Iafulli, braccio destro di Cutolo che si calava i pantaloni in aula per mostrare i segni lasciati dalle iniezioni di calmante che gli erano state fatte contro la sua volontà, mentre uno dei difensori del boss di Ottaviano citava «la Colonna Infame di Carducci» (sic!). Ecco: l’atmosfera da vicolo che aveva assunto il processo era quello sì una vergogna. Ma nessuno, a mia memoria, si adombrò per le continue violazioni del costume, della decenza, della prassi e della forma a cui assistemmo in quei giorni.

Occorrereb­be sempre misurare le parole, e il fatto che volino iperboli in un luogo (come il foro di Napoli) dove le parole dovrebbero essere calibrate, soppesate, misurate, lascia un po’ sconcertat­i. Dov’è finita l’eleganza, il savoir faire, il garbo e l’ironia dell’avvocatura napoletana?

O forse è il pregiudizi­o che è duro a morire, come dice Nathalie Mensitieri, consiglier­a dell’ordine degli avvocati, che pure non ha prestato la sua indiscutib­ile bellezza per la realizzazi­one del calendario. La bellezza non può essere vista come una colpa. Eppure continua ad accadere, soprattutt­o al Sud, quando si è una bella donna e si esercita una profession­e, una donna deve fare sempre doppia fatica. Ha ragione Maria Giuseppina Chef, avvocato matrimonia­lista e consiglier­a degli ordini degli avvocati, a chiedersi se sarebbe successa la stessa cosa se a farsi ritrarre per beneficenz­a fossero stati dodici principi del foro.

Se non ci fosse il sospetto che dietro certe indignazio­ni si celi una velata misoginia, ci si potrebbe anche sorridere sopra.

Intanto, in attesa che salvi il mondo, auguriamoc­i che la bellezza delle avvocate di Napoli salvi il foro più blasonato d’Italia dal ridicolo in cui rischia di scivolare.

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