Corriere del Mezzogiorno (Campania)
UNA STORIA SEMPRE PIÙ TRISTE
La vicenda della griglia di piazza del Plebiscito, di cui si parla ormai da settimane, sta diventando una storia: se seria o ridicola non so. Comunque è una storia triste, tipica di Napoli (ma in genere anche un po’ dell’Italia intera). Non sono uno storico dell’arte, né un ingegnere, né tantomeno un responsabile comunale e perciò mi guardo bene dall’entrare nel merito del problema: sia dal punto di vista artistico, sia dal punto di vista tecnico.
Per la verità, da cittadino di buon senso e di medio buon gusto – e beninteso a questo punto della storia – mi pare che una griglia di venticinque metri quadrati in una piazza ottocentesca, pur se bella e importante, finisca con l’essere un danno assai minore di quello che si paventa se si dovesse decidere di spostare il tutto in piazza Carolina.
La difficoltà di aprire un cantiere in una zona stretta e popolosa e non si sa per quanto tempo; il conseguente inevitabile sconvolgimento del traffico automobilistico; la crisi del commercio locale; i pericoli per la statica dei palazzi; la probabile scoperta di reperti archeologici, che allungherebbe all’infinito i lavori e magari costringerebbe a rifare i progetti da capo: sono tutti timori fondati, da non ignorare a cuor leggero.
Ciò che però davvero mi pare inaccettabile è il metodo del processo decisionale. Poiché so bene che nessuno mi risponderà (altro che «partecipazione» dei cittadini e «indifferenza» della borghesia), chiedo a me stesso come sia possibile, in una grande città come Napoli, arrivare al punto di mettere in discussione un progetto quando la sua esecuzione è già in uno stadio, se non proprio avanzato, certamente progredito rispetto alla decisione presa.
Senza dimenticare ovviamente che la decisione, anzitutto, riguarda una parte nevralgica del centro storico della città; in secondo luogo fa parte di una progettazione complessiva della metropolitana risalente ad alcuni decenni addietro; e infine i lavori a Monte di Dio durano da non so più quanti anni.
Ora delle due l’una: o è in difetto il Comune, cui spetta dirigere e controllare l’andamento di tutti i cantieri, o è in difetto la Sovrintendenza di Palazzo Reale, cui spetta dare i relativi pareri e le necessarie autorizzazioni. Sarei propenso a pensare che sono in difetto entrambe le istituzioni. Le quali evidentemente, secondo un antico costume invalso dalle nostre parti, non riescono a parlarsi neppure per telefono. La Sovrintendenza, tra l’altro, non mi pare ne esca bene: aver dato in un primo tempo il suo consenso e vedersi costretto a ritirarlo per l’intervento del Ministero dei beni culturali è davvero una brutta figura.
È mai possibile che decisioni così importanti per il travagliato destino urbanistico della città vengano adottate senza un minimo di preventiva concertazione tra tutti i soggetti pubblici e privati impegnati ad attuarle? E magari dopo aver consultato, con rapide e utili audizioni, le rappresentanze di altre istituzioni culturali (per esempio, l’Università) e, perché no?, associazioni di artisti e movimenti di ambientalisti? Certamente, in materia, l’istituzione pubblica locale con maggiori poteri e responsabilità è il Comune di Napoli, al quale compete la decisione finale. Il Comune, pur se in un periodo di scarse risorse finanziarie, potrebbe almeno organizzare, su questi temi di rilievo, una efficiente concertazione, la cui indiscutibile necessità è in pratica a costo zero?
E così, ancora una volta purtroppo, non si può fare a meno di osservare che la scarsa attenzione della dirigenza politica della città al funzionamento della macchina amministrativa comunale – il vero problema preliminare a ogni altro problema – porta a risultati incredibili, come la vicenda che stiamo vivendo e che in qualsiasi altro paese civile sarebbero a dir poco incomprensibili. C’è da auspicare che chi di dovere prenda esempio da questa singolare vicenda e ne faccia una preziosa esperienza per il futuro.