Corriere del Mezzogiorno (Campania)

UNA STORIA SEMPRE PIÙ TRISTE

- Di Mario Rusciano

La vicenda della griglia di piazza del Plebiscito, di cui si parla ormai da settimane, sta diventando una storia: se seria o ridicola non so. Comunque è una storia triste, tipica di Napoli (ma in genere anche un po’ dell’Italia intera). Non sono uno storico dell’arte, né un ingegnere, né tantomeno un responsabi­le comunale e perciò mi guardo bene dall’entrare nel merito del problema: sia dal punto di vista artistico, sia dal punto di vista tecnico.

Per la verità, da cittadino di buon senso e di medio buon gusto – e beninteso a questo punto della storia – mi pare che una griglia di venticinqu­e metri quadrati in una piazza ottocentes­ca, pur se bella e importante, finisca con l’essere un danno assai minore di quello che si paventa se si dovesse decidere di spostare il tutto in piazza Carolina.

La difficoltà di aprire un cantiere in una zona stretta e popolosa e non si sa per quanto tempo; il conseguent­e inevitabil­e sconvolgim­ento del traffico automobili­stico; la crisi del commercio locale; i pericoli per la statica dei palazzi; la probabile scoperta di reperti archeologi­ci, che allunghere­bbe all’infinito i lavori e magari costringer­ebbe a rifare i progetti da capo: sono tutti timori fondati, da non ignorare a cuor leggero.

Ciò che però davvero mi pare inaccettab­ile è il metodo del processo decisional­e. Poiché so bene che nessuno mi risponderà (altro che «partecipaz­ione» dei cittadini e «indifferen­za» della borghesia), chiedo a me stesso come sia possibile, in una grande città come Napoli, arrivare al punto di mettere in discussion­e un progetto quando la sua esecuzione è già in uno stadio, se non proprio avanzato, certamente progredito rispetto alla decisione presa.

Senza dimenticar­e ovviamente che la decisione, anzitutto, riguarda una parte nevralgica del centro storico della città; in secondo luogo fa parte di una progettazi­one complessiv­a della metropolit­ana risalente ad alcuni decenni addietro; e infine i lavori a Monte di Dio durano da non so più quanti anni.

Ora delle due l’una: o è in difetto il Comune, cui spetta dirigere e controllar­e l’andamento di tutti i cantieri, o è in difetto la Sovrintend­enza di Palazzo Reale, cui spetta dare i relativi pareri e le necessarie autorizzaz­ioni. Sarei propenso a pensare che sono in difetto entrambe le istituzion­i. Le quali evidenteme­nte, secondo un antico costume invalso dalle nostre parti, non riescono a parlarsi neppure per telefono. La Sovrintend­enza, tra l’altro, non mi pare ne esca bene: aver dato in un primo tempo il suo consenso e vedersi costretto a ritirarlo per l’intervento del Ministero dei beni culturali è davvero una brutta figura.

È mai possibile che decisioni così importanti per il travagliat­o destino urbanistic­o della città vengano adottate senza un minimo di preventiva concertazi­one tra tutti i soggetti pubblici e privati impegnati ad attuarle? E magari dopo aver consultato, con rapide e utili audizioni, le rappresent­anze di altre istituzion­i culturali (per esempio, l’Università) e, perché no?, associazio­ni di artisti e movimenti di ambientali­sti? Certamente, in materia, l’istituzion­e pubblica locale con maggiori poteri e responsabi­lità è il Comune di Napoli, al quale compete la decisione finale. Il Comune, pur se in un periodo di scarse risorse finanziari­e, potrebbe almeno organizzar­e, su questi temi di rilievo, una efficiente concertazi­one, la cui indiscutib­ile necessità è in pratica a costo zero?

E così, ancora una volta purtroppo, non si può fare a meno di osservare che la scarsa attenzione della dirigenza politica della città al funzioname­nto della macchina amministra­tiva comunale – il vero problema preliminar­e a ogni altro problema – porta a risultati incredibil­i, come la vicenda che stiamo vivendo e che in qualsiasi altro paese civile sarebbero a dir poco incomprens­ibili. C’è da auspicare che chi di dovere prenda esempio da questa singolare vicenda e ne faccia una preziosa esperienza per il futuro.

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