Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Pasolini politico, «pietra d’inciampo» della Sinistra
La morte del poeta. Potere e storia d’Italia in Pier Paolo Pasolini (Cronopio) è un libro che vorrei tutti leggessero. Tutti i pasoliniani: gli antemarcia ed i più giovani. L’autore, Bruno Moroncini, è un filosofo a cui mi domando perché non tributiamo l’omaggio riservato a troppe (mezze) figure dell’Italian Theory .
Il cuore della sua martellante argomentazione, che pulsa con la regolarità solenne del materialismo storico e della psicoanalisi freudiana interrotta dalle aritmie lacaniane, è squisitamente politica: nell’accezione inusitatamente alta del termine. La Vita, l’Opera e la Morte di Pasolini, fuse come in un trittico trecentesco però capovolto, sono altrettante pietre d’inciampo di una Sinistra che parla oramai la medesima lingua del Sistema. Non se ne esce, dice Moroncini. Lo dice impietosamente, con ben altro spessore rispetto a certo lacanesimo belloccio e tanto televisivo. Non se ne esce, perché globalizzazione significa alienare due volte il lavoro. La prima, economicamente: la vecchia faccenda della trasformazione del pluslavoro in plusvalore, pietra angolare dell’accumulazione capitalistica. La seconda, simbolicamente: la nuova faccenda di chi compra nel mercato dei consumi, apparentemente libero e democraticamente aperto, quote sempre maggiori di godimento, senza sapere che la catena del desiderio ha le maglie fatte su misura per legare, ancora più indissolubilmente, i nuovi sfruttati al carro dei vecchi sfruttatori.
Posta in questi termini, la solita solfa delle dicotomie su Pasolini – reazionario o progressista? Cattolico o comunista? O semplicemente omosessuale, quasi che l’Opera fosse una crittografia del Corpo e un annuncio della Morte – perde il pathos da teatrino dei pupi, al quale la critica letteraria ha fornito negli ultimi anni canovacci sempre più scadenti. Lo scrittore-pensatore di Casarsa è faccenda troppo seria per lasciarla ai letterati di professione. L’espressione da Moroncini adoperata per tacitare chi la mena con l’artista magari ipercolto, eppure dilettantesco nel manovrare antropologia, storia delle religioni, psicoanalisi, sociologia, filologia, filmologia ed arti figurative, è un calco foucaultiano: «lettore sagittale». Pasolini scaglia frecce che spaccano i campi disciplinari, abolendo i confini stabiliti dai ringhiosi custodi della purezza accademica. Un viandante che ruba idee e citazioni per un’Opera da scrivere in presa diretta. Petrolio, smisurato abbozzo di romanzo-saggio a cui lavorava negli ultimi tempi con la certosina pazienza di un’archivista accumulante materiali i più eterogenei in grado di decifrare misteri grandi e minuti del trentennio italiano post seconda guerra mondiale, è la riprova. Moroncini ne smonta le forme narrative sofisticatissime; le ossessioni stilistiche; il discorso sul Potere, che connette Pasolini con l’invettiva dantesca. Dante, fissazione suprema di Pasolini: il Dante corsaro dell’Inferno. E non solo.
Una genealogia di pensieri sul Moderno pure molto italiana. Penso al modo in cui leggiamo oggi i Quaderni di Gramsci, sequenza geniale di appunti sulla preistoria del nostro disastro materiale e morale. Credo che Moroncini non impazzirà per l’ accostamento; ma il dono del suo saggio sta anche nel lasciarci sbizzarrire con l’analogia. I predecessori che uno scrittore costruisce, giusto un altro maestro di Pasolini: Gianfranco Contini.
Meglio che interrogarsi sugli odierni successori.
Petrolio Uno smisurato abbozzo di romanzo-saggio a cui lavorava negli ultimi tempi