Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Dichiarare il dissesto non è una tragedia
Preoccupante il giudizio dato alcuni giorni fa dai revisori dei conti riguardo il Comune di Napoli sullo stato di realizzazione del piano di riequilibrio finanziario pluriennale. Senza voler entrare nel dettaglio di una relazione tecnica che peserà sulle future decisioni della Corte e sui destini della città, appare necessario riflettere su due questioni strettamente collegate e che sembrano non più evitabili: l’adeguatezza dell’attuale impianto normativo e dei piani di risanamento, e il coraggio di ammettere fino in fondo l’esistente, di determinare un cambiamento reale.
Sulle norme, possiamo ritenere che il tempo sia maturo per pensare a una riforma che in maniera appropriata consideri le differenze tra gli enti e rafforzi le azioni: non tutti i comuni sono uguali, non tutte le organizzazioni possono affrontare con gli stessi strumenti problemi di debito e di deficit strutturale, spesso profondamente diversi, sia nelle cause specifiche, sia negli effetti pratici. I disequilibri finanziari non sono tutti tra loro paragonabili e rappresentano solo la punta dell’iceberg della inefficienza di una amministrazione. Allo stesso tempo, come in parte già sottolineato, commentando la sentenza della Consulta sul divieto di spalmabilità dei debiti, oltre ogni ragionevole limite temporale, le norme dovrebbero concentrarsi più efficacemente sulle cause profonde dei dissesti, sulla rapida e duratura rimozione di queste cause, offrendo maggiore agibilità, allargando il campo degli interventi, sanzionando con immediatezza.
Oggi tutto o gran parte si riduce alla leva fiscale, alla vendita dei beni, alla razionalizzazione delle partecipazioni, al recupero dei crediti, ignorando comunque il mercato dei beni e dei servizi, i cicli dell’economia, il livello di disoccupazione, e via dicendo. Sembrerebbe già tanto ma non è così, in particolar modo negli enti più complessi, nei territori e nelle città più difficili. Occorrerebbero delle vere e proprie unità di crisi esterne, ristrutturazioni organizzative complesse, dirigenti specializzati, appropriate relazioni con i diversi stakeholders.
Considerato ciò, e doverosamente premesso che amministrare un Comune come quello di Napoli è opera ardua, con poche, pochissime certezze e troppe insidie, bisogna affermare con chiarezza che il dissesto non è una tragedia, soprattutto quando la gestione corrente è già andata forse ben oltre ogni civile tollerabilità e le misure finora adottate hanno già dimostrato di aver esaurito la loro efficacia, senza aver invertito nella sostanza la rotta. È vero c’è un elemento psicologico nel dissesto, un elemento negativamente evocativo che tutti gli amministratori vorrebbero evitare. Quello del dissesto è il tempo della bocciatura; si ammette un fallimento, si riceve un bollino di incompetenza, si accerta una insufficienza: ma, vivaddio!, al momento in Italia appare come l’unica strada per far comprendere meglio ai cittadini come sono stati governati.
Il dissesto non ha solo effetti giuridici, finanziari e politici ha degli effetti di immagine notevoli, ma non è un’immagine da trasferire o ribaltare sulla città, e non è far insinuare che ciò possa accadere: il dissesto macchia o può macchiare solo chi amministra. I progetti, di cui si è parlato, di autonomia della città o di moneta indipendente andrebbero ripensati, rivisti, e non solo perché troppo ambiziosi, irrealistici, impraticabili o pretestuosi, si scelga l’aggettivo che si preferisce, ma perché innanzitutto l’attuale cultura amministrativa non lo permette. I progetti dovrebbero essere altri. Meglio spendersi per un più realizzabile e necessario disegno di riqualificazione delle prassi e dei comportamenti, più utile costruire su ciò che esiste, tenendo un volo probabilmente più basso ma più sicuro.
Napoli ha difeso bene negli anni la sua identità, è forse una delle poche grandi città al mondo che ha saputo sopravvivere alla globalizzazione economica, ha resistito alla trasformazione in senso disumanizzante delle società contemporanee; ha difeso bene la sua parte migliore, ma non è riuscita a liberarsi della sua parte peggiore; verrebbe da dire che la sua promiscua e caotica esistenza ha ben retto, con essa purtroppo anche la sua sempreverde criminalità, ma non ha saputo conciliare, mettere in armonia, la sua identità con ciò che più di moderno una città chiede. Napoli, con i suoi mille volti, ha il diritto di entrare nella modernità, di tentare una rottura, provocare una frattura, come direbbe Bruno Latour. Non sappiamo se il dissesto arriverà, ne quanto potrà aiutarla, ma di certo non la macchierà, e non sarà una tragedia.