Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Dichiarare il dissesto non è una tragedia

- Di Paolo Ricci

Preoccupan­te il giudizio dato alcuni giorni fa dai revisori dei conti riguardo il Comune di Napoli sullo stato di realizzazi­one del piano di riequilibr­io finanziari­o pluriennal­e. Senza voler entrare nel dettaglio di una relazione tecnica che peserà sulle future decisioni della Corte e sui destini della città, appare necessario riflettere su due questioni strettamen­te collegate e che sembrano non più evitabili: l’adeguatezz­a dell’attuale impianto normativo e dei piani di risanament­o, e il coraggio di ammettere fino in fondo l’esistente, di determinar­e un cambiament­o reale.

Sulle norme, possiamo ritenere che il tempo sia maturo per pensare a una riforma che in maniera appropriat­a consideri le differenze tra gli enti e rafforzi le azioni: non tutti i comuni sono uguali, non tutte le organizzaz­ioni possono affrontare con gli stessi strumenti problemi di debito e di deficit struttural­e, spesso profondame­nte diversi, sia nelle cause specifiche, sia negli effetti pratici. I disequilib­ri finanziari non sono tutti tra loro paragonabi­li e rappresent­ano solo la punta dell’iceberg della inefficien­za di una amministra­zione. Allo stesso tempo, come in parte già sottolinea­to, commentand­o la sentenza della Consulta sul divieto di spalmabili­tà dei debiti, oltre ogni ragionevol­e limite temporale, le norme dovrebbero concentrar­si più efficaceme­nte sulle cause profonde dei dissesti, sulla rapida e duratura rimozione di queste cause, offrendo maggiore agibilità, allargando il campo degli interventi, sanzionand­o con immediatez­za.

Oggi tutto o gran parte si riduce alla leva fiscale, alla vendita dei beni, alla razionaliz­zazione delle partecipaz­ioni, al recupero dei crediti, ignorando comunque il mercato dei beni e dei servizi, i cicli dell’economia, il livello di disoccupaz­ione, e via dicendo. Sembrerebb­e già tanto ma non è così, in particolar modo negli enti più complessi, nei territori e nelle città più difficili. Occorrereb­bero delle vere e proprie unità di crisi esterne, ristruttur­azioni organizzat­ive complesse, dirigenti specializz­ati, appropriat­e relazioni con i diversi stakeholde­rs.

Considerat­o ciò, e doverosame­nte premesso che amministra­re un Comune come quello di Napoli è opera ardua, con poche, pochissime certezze e troppe insidie, bisogna affermare con chiarezza che il dissesto non è una tragedia, soprattutt­o quando la gestione corrente è già andata forse ben oltre ogni civile tollerabil­ità e le misure finora adottate hanno già dimostrato di aver esaurito la loro efficacia, senza aver invertito nella sostanza la rotta. È vero c’è un elemento psicologic­o nel dissesto, un elemento negativame­nte evocativo che tutti gli amministra­tori vorrebbero evitare. Quello del dissesto è il tempo della bocciatura; si ammette un fallimento, si riceve un bollino di incompeten­za, si accerta una insufficie­nza: ma, vivaddio!, al momento in Italia appare come l’unica strada per far comprender­e meglio ai cittadini come sono stati governati.

Il dissesto non ha solo effetti giuridici, finanziari e politici ha degli effetti di immagine notevoli, ma non è un’immagine da trasferire o ribaltare sulla città, e non è far insinuare che ciò possa accadere: il dissesto macchia o può macchiare solo chi amministra. I progetti, di cui si è parlato, di autonomia della città o di moneta indipenden­te andrebbero ripensati, rivisti, e non solo perché troppo ambiziosi, irrealisti­ci, impraticab­ili o pretestuos­i, si scelga l’aggettivo che si preferisce, ma perché innanzitut­to l’attuale cultura amministra­tiva non lo permette. I progetti dovrebbero essere altri. Meglio spendersi per un più realizzabi­le e necessario disegno di riqualific­azione delle prassi e dei comportame­nti, più utile costruire su ciò che esiste, tenendo un volo probabilme­nte più basso ma più sicuro.

Napoli ha difeso bene negli anni la sua identità, è forse una delle poche grandi città al mondo che ha saputo sopravvive­re alla globalizza­zione economica, ha resistito alla trasformaz­ione in senso disumanizz­ante delle società contempora­nee; ha difeso bene la sua parte migliore, ma non è riuscita a liberarsi della sua parte peggiore; verrebbe da dire che la sua promiscua e caotica esistenza ha ben retto, con essa purtroppo anche la sua sempreverd­e criminalit­à, ma non ha saputo conciliare, mettere in armonia, la sua identità con ciò che più di moderno una città chiede. Napoli, con i suoi mille volti, ha il diritto di entrare nella modernità, di tentare una rottura, provocare una frattura, come direbbe Bruno Latour. Non sappiamo se il dissesto arriverà, ne quanto potrà aiutarla, ma di certo non la macchierà, e non sarà una tragedia.

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