Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Acquedotto Carolino

Un prodigio firmato Vanvitelli Scavando trovò sepolture, grotte e una «mofeta» che uccise un suo operaio

- di Romualdo Gianoli

Quando nel 1752 Carlo di Borbone e Luigi Vanvitelli posero la prima pietra della Reggia di Caserta, non immaginava­no certo che, esattament­e 240 anni dopo, sarebbe stata istituita, per il 22 marzo, la giornata mondiale dell’acqua per richiamare l’attenzione sull’importanza di questa risorsa vitale. Eppure, già allora, l’acqua era destinata a essere protagonis­ta di primo piano nella Reggia, tanto che per essa furono spese enormi somme di denaro, messe in campo capacità ingegneris­tiche, conoscenze matematich­e di architetti e geografi e mobilitati centinaia di operai. Da tutto ciò nacque quella vera meraviglia che è l’acquedotto Carolino (dal 1997 inserito nella lista dei siti Unesco patrimonio dell’umanità) costruito per alimentare le fontane della Reggia casertana e gli impianti delle seterie di San Leucio.

I lavori, durati dal 1753 al 1762, costarono complessiv­amente 622.424 ducati, più o meno 31 milioni di euro attuali. Una cifra enorme ma giustifica­ta dalle straordina­rie caratteris­tiche di quella che sarebbe stata una tra le maggiori imprese ingegneris­tiche del Settecento, tanto imponente da destare l’ammirazion­e di tutta l’Europa.

Dalle sorgenti, a quota 254 metri sul monte Taburno nel beneventan­o e fino alla Reggia, l’acquedotto si sviluppa quasi tutto sottoterra per circa 38 chilometri, attraverso un condotto scavato per lo più a mano, largo e alto poco meno di un metro e mezzo. Vanvitelli e i suoi collaborat­ori (gli architetti Francesco Collecini e Giovanni Patturelli) furono così precisi nei calcoli, da riuscire a dare al percorso una pendenza media di appena mezzo millimetro per ogni metro, così da far scorrere l’acqua, per caduta, fino alla scenografi­ca cascata del monte Tifata su cui è adagiato il parco della Reggia.

Lungo il tracciato sorgono 67 ‘torrini’, piccole costruzion­i in muratura a base quadrata e tetto piramidale, usati come sfiatatoi e per le ispezioni al condotto sotterrane­o, mentre nei pochi tratti in cui scorre all’aperto, l’acqua passa per alcuni ponti-canali. Tra questi il Ponte Nuovo sul fiume Isclero, tra i comuni di Moiano e Bucciano nel beneventan­o, il Ponte della Valle di Durazzano ma, soprattutt­o, gli spettacola­ri Ponti della Valle nei pressi di Maddaloni.

Se oggi la vista di questa struttura lascia stupefatti, possiamo facilmente immaginare l’effetto che doveva fare a quei tempi.

Il religioso irlandese John Chetwode Eustace, in viaggio attraverso l’Italia nel 1802, così racconta lo stupore suscitato da quella costruzion­e: «Nel mezzo di questa solitaria Valle il viaggiator­e resta sorpreso alla veduta di un magnifico ponte […] la sua magnificen­za maggiore si scorge in questa Valle, dove la sua lunghezza, elevazione, ed effetto che produce, sorpassa ogni altro edificio di moderna costruzion­e, che anzi con ragione può dirsi, che gareggia co’ più nobili monumenti romani».

Con i suoi tre ordini di arcate sovrappost­e (che nel punto più alto svettano a quasi 56 metri) e i 44 piloni a pianta quadrata su cui poggia, la costruzion­e si lancia, eleganteme­nte, per quasi 530 metri attraverso la valle, tra i monti Longano e Garzano, facendone all’epoca il ponte più lungo d’Europa.

Ciononosta­nte non è una struttura fragile, tutt’altro. Nel punto centrale, ad esempio, le fondamenta dei piloni raggiungon­o la profondità di quasi 37 metri, una caratteris­tica che ha permesso alla struttura di resistere ai terremoti che si sono verificati nel corso dei secoli.

Durante i complessi lavori di costruzion­e non mancarono neppure episodi singolari o curiosi, come le scoperte archeologi­che e geologiche riportate nel Dizionario di Geografia Moderna dell’Encicloped­ia Metodica di Parigi del 1795: «Scavando per formar le pile del grand’arco, a 90 piedi di profondità, Vanvitelli trovò una grotta, con quantità di corpi morti. Di qual prodigiosa antichità non deve esser ella cotesta sepultura, mentre dalle opere de’ Romani si vede che il terreno due mil’anni indietro era già presso a poco il medesimo che in oggi? Nel far l’apertura degli acquedotti nella montagna di S. Croce, uscì una mofeta (fumarola vulcanica con emissione di gas ndr) o vapor venefico, che stese morto il primo operajo; altri quattro molto stentarono a riaversi».

Sicurament­e la costruzion­e dell’acquedotto Carolino servì ad accontenta­re un re smanioso di diventare grande. Per chi lo aveva progettato e realizzato, però, fu soprattutt­o una grande sfida scientific­a e tecnologic­a, che servì a mettere alla prova le capacità di un giovane regno che voleva crescere con le sue forze. Lo suggerisce un particolar­e significat­ivo: le condotte di ferro necessarie per l’acqua, progettate da Vanvitelli, furono realizzate nelle Regie Ferriere di Stilo, in Calabria, usando il metallo estratto dalle miniere (anch’esse calabresi) di Pazzano e Bivongi. Alla fine la sfida fu vinta e quando durante l’inaugurazi­one, il 7 maggio del 1762, dopo quattro ore dall’apertura delle sorgenti sul Taburno l’acqua zampillò dalle fontane della Reggia, il re fu soddisfatt­o e l’acquedotto Carolino entrò nella storia.

 ??  ??
 ??  ?? Giornata dell’acqua Sopra l’opera che porta l’acqua anche alla Reggia di Caserta (a sinistra)
Giornata dell’acqua Sopra l’opera che porta l’acqua anche alla Reggia di Caserta (a sinistra)
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy