Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Caro Ranieri, la tua idea è di certo apprezzabile Ma qui il ceto medio è sordo
Per carità, la via d’uscita alla crisi di Napoli pensata da Umberto Ranieri è apprezzabile. Perché è disinteressata, generosa. Perché viene da quella che fu l’anima migliore della tradizione comunista italiana. Ma è anche realistica?
È realistico promuovere una lista civica oggi, nell’anno di grazia 2019? È realistico chiamare a raccolta quella che Ranieri definisce «classe dirigente diffusa»? Ed esiste, a Napoli, una «classe dirigente diffusa»? Ricordo che correva il 1993 ed erano ancora calde le ceneri di Mani Pulite, quando Sabatino Santangelo cercò di suscitare un movimento analogo, una reazione dei ceti medi cittadini al collasso della Prima Repubblica. Ma Napoli non lo seguì, preferendogli Antonio Bassolino.
Significativamente il Pds, che altrove aveva puntato su personalità vicine alla società civile come Sansa, Bianco, Cacciari, Illy o lo stesso Rutelli, a Napoli si era affidato invece a un politico di lungo corso. E aveva visto giusto. Il notaio venne surclassato dall’ex comunista. Fu poi Bassolino a diventare il leader di un sorta di lista civica, quello che Mauro Calise avrebbe chiamato il partito personale. Ebbe il consenso convinto della «classe dirigente diffusa», intellettuali, ceti medi, imprenditori. Con la conseguenza che si instaurò un forte comando politico della città (fu questo il tempo migliore del bassolinismo), ma non crebbe la partecipazione della società civile, la sua presenza nel discorso pubblico, il suo contributo alle politiche municipali. Piuttosto, quelle élite professionali e culturali tendevano a diventare gli uomini del re.
Con un rischio di conformismo di cui s’è detto spesso. E quando, colpevolmente, il principe rinascimentale «dimenticò» di selezionare un ceto politico che potesse succedergli, ecco che Napoli si trovò priva di una testa. Politicamente acefala e sociologicamente (come sempre) debole. Orientata ancora dal carismatico Bassolino, l’opinione pubblica «progressista» affidò non una, ma due sindacature a Rosa Iervolino, amministratrice poco memorabile. Poi, a dimostrazione di una politica ormai autoreferenziale e pericolosamente lontana dalla gente comune, vennero le malefatte delle primarie 2011 (e Ranieri non me ne voglia se rivango ferite dolorose). Infine, la beneamata «opinione» di sinistra si gettò -e anche qui non una, ma
due volte- nelle braccia di Luigi de Magistris. Il quale, intelligentemente, creò una narrativa populistica che tagliava l’erba sotto i piedi proprio alla borghesia illuminata e ai salotti buoni e che diede vita a quell’ircocervo di metropoli iper-turistica, di territorio del laissez faire microillegale, di massificazione plebea, di antagonismo a buon mercato che è la Napoli odierna.
Cosa aggiungere di più? Che, con ogni evidenza, il bilancio di questa storia pluridecennale si è dimostrato infausto per la sinistra organizzata, la quale non per caso propone oggi alle europee una lista a dir poco pavida, rimpinzata di vecchie figure di partito, capeggiata dal solito nume della lotta alle mafie (secondo l’opinabilissima equazione: questione napoletana=questione criminale). Ma quel bilancio sembra infausto anche sul piano di una società civile che è apparsa afona di fronte all’egemonismo bassoliniano, impigrita durante la lunga e inutile parentesi iervoliniana, colpevolmente assente o colpevolmente consenziente nella interminata stagione demagistrisiana. Si può pensare a una sua resurrezione nel Terzo Millennio, in un quadro politico frattanto invaso dai predoni pentastellati e dalla destra neonazionalista?
Un sociologo, fatti due conti, risponderebbe di no. Si chiederebbe, il sociologo, dove mai sia possibile rintracciare quella «classe dirigente diffusa», in quali ambiti produttivi, in quali competenze amministrative, in quale rete finanziaria. Se invece la domanda fosse rivolta a uno scienziato della politica, molto probabilmente le perplessità riguarderebbero il doppio nodo del partito e della leadership. In un quadro culturale e sociale stressato com’è quello napoletano, direbbe il politologo, per cercare strade nuove e per coinvolgere ambiti consistenti di opinione servirebbe una proposta forte e innovativa. E non certo una «ripartenza», come suol dirsi con insopportabile retorica. Un nuovo Pd o magari un nuovo partito. E servirebbe un leader agguerrito, un leader convincente, forse un leader carismatico. Ma dove sia il partito, dove sia il leader, dove sia la «classe dirigente diffusa» è ben difficile da capire. E manca, al momento, anche la lanterna di Diogene.