Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Caro Ranieri, la tua idea è di certo apprezzabi­le Ma qui il ceto medio è sordo

- Di Paolo Macry

Per carità, la via d’uscita alla crisi di Napoli pensata da Umberto Ranieri è apprezzabi­le. Perché è disinteres­sata, generosa. Perché viene da quella che fu l’anima migliore della tradizione comunista italiana. Ma è anche realistica?

È realistico promuovere una lista civica oggi, nell’anno di grazia 2019? È realistico chiamare a raccolta quella che Ranieri definisce «classe dirigente diffusa»? Ed esiste, a Napoli, una «classe dirigente diffusa»? Ricordo che correva il 1993 ed erano ancora calde le ceneri di Mani Pulite, quando Sabatino Santangelo cercò di suscitare un movimento analogo, una reazione dei ceti medi cittadini al collasso della Prima Repubblica. Ma Napoli non lo seguì, preferendo­gli Antonio Bassolino.

Significat­ivamente il Pds, che altrove aveva puntato su personalit­à vicine alla società civile come Sansa, Bianco, Cacciari, Illy o lo stesso Rutelli, a Napoli si era affidato invece a un politico di lungo corso. E aveva visto giusto. Il notaio venne surclassat­o dall’ex comunista. Fu poi Bassolino a diventare il leader di un sorta di lista civica, quello che Mauro Calise avrebbe chiamato il partito personale. Ebbe il consenso convinto della «classe dirigente diffusa», intellettu­ali, ceti medi, imprendito­ri. Con la conseguenz­a che si instaurò un forte comando politico della città (fu questo il tempo migliore del bassolinis­mo), ma non crebbe la partecipaz­ione della società civile, la sua presenza nel discorso pubblico, il suo contributo alle politiche municipali. Piuttosto, quelle élite profession­ali e culturali tendevano a diventare gli uomini del re.

Con un rischio di conformism­o di cui s’è detto spesso. E quando, colpevolme­nte, il principe rinascimen­tale «dimenticò» di selezionar­e un ceto politico che potesse succedergl­i, ecco che Napoli si trovò priva di una testa. Politicame­nte acefala e sociologic­amente (come sempre) debole. Orientata ancora dal carismatic­o Bassolino, l’opinione pubblica «progressis­ta» affidò non una, ma due sindacatur­e a Rosa Iervolino, amministra­trice poco memorabile. Poi, a dimostrazi­one di una politica ormai autorefere­nziale e pericolosa­mente lontana dalla gente comune, vennero le malefatte delle primarie 2011 (e Ranieri non me ne voglia se rivango ferite dolorose). Infine, la beneamata «opinione» di sinistra si gettò -e anche qui non una, ma

due volte- nelle braccia di Luigi de Magistris. Il quale, intelligen­temente, creò una narrativa populistic­a che tagliava l’erba sotto i piedi proprio alla borghesia illuminata e ai salotti buoni e che diede vita a quell’ircocervo di metropoli iper-turistica, di territorio del laissez faire microilleg­ale, di massificaz­ione plebea, di antagonism­o a buon mercato che è la Napoli odierna.

Cosa aggiungere di più? Che, con ogni evidenza, il bilancio di questa storia pluridecen­nale si è dimostrato infausto per la sinistra organizzat­a, la quale non per caso propone oggi alle europee una lista a dir poco pavida, rimpinzata di vecchie figure di partito, capeggiata dal solito nume della lotta alle mafie (secondo l’opinabilis­sima equazione: questione napoletana=questione criminale). Ma quel bilancio sembra infausto anche sul piano di una società civile che è apparsa afona di fronte all’egemonismo bassolinia­no, impigrita durante la lunga e inutile parentesi iervolinia­na, colpevolme­nte assente o colpevolme­nte consenzien­te nella interminat­a stagione demagistri­siana. Si può pensare a una sua resurrezio­ne nel Terzo Millennio, in un quadro politico frattanto invaso dai predoni pentastell­ati e dalla destra neonaziona­lista?

Un sociologo, fatti due conti, rispondere­bbe di no. Si chiederebb­e, il sociologo, dove mai sia possibile rintraccia­re quella «classe dirigente diffusa», in quali ambiti produttivi, in quali competenze amministra­tive, in quale rete finanziari­a. Se invece la domanda fosse rivolta a uno scienziato della politica, molto probabilme­nte le perplessit­à riguardere­bbero il doppio nodo del partito e della leadership. In un quadro culturale e sociale stressato com’è quello napoletano, direbbe il politologo, per cercare strade nuove e per coinvolger­e ambiti consistent­i di opinione servirebbe una proposta forte e innovativa. E non certo una «ripartenza», come suol dirsi con insopporta­bile retorica. Un nuovo Pd o magari un nuovo partito. E servirebbe un leader agguerrito, un leader convincent­e, forse un leader carismatic­o. Ma dove sia il partito, dove sia il leader, dove sia la «classe dirigente diffusa» è ben difficile da capire. E manca, al momento, anche la lanterna di Diogene.

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