Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Finché c’è cinema c’è speranza
C’è una frase che Truffaut mi regalò nel corso di una lontana e avventurosa intervista, e che si adatta perfettamente all’ultimo film di Almodóvar. «Un finale onesto – mi disse – è il punto esatto in cui si incrociano la curva ascendente dello spettacolo e quella discendente della vita». Giusto quel che accade in Dolor y gloria, dove un celebre regista che non gira più film a causa degli acciacchi fisici e morali di un’esistenza sregolata si immerge in una recherche tra i ricordi familiari, i primi turbamenti omoerotici, le illusioni e delusioni sentimentali. Un uomo sul viale del tramonto: la vita nella sua fase discendente. Ma poi, proprio quando malattie e angoscia stanno per prendere il sopravvento, accade qualcosa: l’uomo è disteso in sala operatoria per un intervento chirurgico decisivo, ma nella sua mente e sullo schermo scoppiano fuochi pirotecnici, e l’inquadratura finale è quella di lui bambino tra le braccia della madre. Però non è l’ennesimo patetico flash dal passato, è il set del suo prossimo film. Il viaggio non è finito. La curva della vita e quella dello spettacolo si sono per un attimo incrociate. Finché c’è cinema c’è speranza.
Qualcuno ha scritto che il film svela un Almodóvar senile, e allora mi dico che l’ex ragazzo terribile della Mancha sta invecchiando bene: e certo sarebbe triste se il regista che rivoluzionò il cinema spagnolo si mettesse a scimmiottare, alla soglia dei 70, il Pedro trasgressivo e provocatore di Matador o di Donne sull’orlo di una crisi di nervi. Non è più tempo di movida notturna ma di bilanci artistici e umani, e Almodóvar ci offre (con la spudoratezza colorata di un tempo, ma temperata dall’esperienza) un autoritratto mai celebrativo affidandolo al suo attore feticcio del tempo dei bagordi, un Antonio Banderas mai così convincente nel ruolo di «alter Pedro». Nel film si chiama Salvador Mallo, il cui anagramma racchiude la vera identità del personaggio: «Almodóvar». Più onesto di così.