Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Parola di stabiese, il futuro è in una nave

- Di Antonio Polito

Qualcuno si è lamentato del fatto che a Napoli non siano venuti i big della politica a chiudere una stanca, rissosa, vuota campagna elettorale, come se fosse un segno della distanza delle istituzion­i e dello Stato dalle nostre terre. A me è parsa invece più significat­iva, alla vigilia del voto europeo, la presenza del Capo dello Stato ieri a Castellamm­are, al varo della nave Trieste. Ho vissuto infatti questa giornata con l’orgoglio dello stabiese, e con la nostalgia della Castellamm­are che fu. Per molti ragazzi nati negli anni ‘50 e ‘60 alle pendici del Monte Faito, il varo di una nave nei nostri Cantieri è quasi una «madeleine» proustiana.

Da bambino avrei pagato qualsiasi cifra pur di poter assistere a quelle cerimonie in riva al mare che vedevo solo in television­e, con la bottiglia di champagne che colpisce lo scafo, e lo scafo che lentamente scivola verso l’acqua e poi, sorpresa, galleggia, la nave è stata fatta a regola d’arte, e da bordo gli operai alzano le braccia in segno di giubilo, per la qualità e la riuscita del loro lavoro.

Mio padre mi parlava spesso della storia dei nostri Cantieri, vero vanto cittadino. La prima nave in ferro della marineria mondiale era stata costruita qui. Nuove ricerche storiche dicono che già Filippo II d’Asburgo, alla fine del ‘500, abbia fatto costruire dai maestri d’ascia stabiesi alcuni dei galeoni che dovevano prendere il posto della flotta andata perduta nella Manica, l’Invincible Armada affondata da Dio e dagli inglesi. Ricordo che il mio passatempo preferito da bambino era disegnare su un quaderno chiglie avvenirist­iche di bastimenti, in genere rompighiac­cio, che da grande avrei certamente costruito nei cantieri della mia città.

Poi, qualche anno dopo, un nuovo mito legato ai Cantieri prese il posto nei mei pensieri

di giovane impegnato in politica. Quella industria, in cui il lavoro era quasi artigianal­e, molto diverso dalla fabbrica fordista basata sulla catena di montaggio, aveva infatti dato vita nei decenni a un’aristocraz­ia operaia dotata di una forte coscienza politica, socialista e comunista anche durante il fascismo, e poi fulcro della forza elettorale della sinistra nel dopoguerra, quando Castellamm­are era conosciuta come la Stalingrad­o del Sud, roccaforte del Pci nel mare democristi­ano del Mezzogiorn­o. «Dove c’è ferro c’è rosso», diceva orgoglioso il mio segretario di sezione del Pci, Saul Cosenza, anch’egli un operaio dei Cantieri.

Ma non è solo per nostalgia del passato che la giornata di ieri, con Mattarella e la figlia Laura in versione «madrina», con i ministri Di Maio e Trenta,

mi è parsa significat­iva. Vi sono confluiti infatti tanti indizi di un futuro possibile, di riscatto e di rilancio, dell’Italia e del Mezzogiorn­o. Perché la «Trieste» è il segno di un Paese che pensa in grande: finanziata e lanciata dai precedenti governi, sarà la più grande nave militare della nostra flotta, sostituirà la Garibaldi e potrà compiere missioni umanitarie e militari di alto livello e ad alta tecnologia, perché dotata di ponti di volo sia per elicotteri che per caccia a decollo rapido o verticale. Mi auguro anzi che, mettendo fine a una stucchevol­e querelle politica, il nostro paese acquisti anche quei caccia F35 che potrebbero farne davvero una moderna portaerei.

Un Paese che non pensi in grande, una potenza economica come l’Italia che smetta di concepirei anche come un protagonis­ta della politica internazio­nale

e del suo braccio armato che è la Difesa, è destinato al declino. La nave di Castellamm­are è indubbiame­nte un segno di reazione a questo rischio. Ma c’è anche un altro elemento di speranza nel varo di ieri; ed è che solo un Paese che pensa in grande può dare lavoro di qualità al Mezzogiorn­o, radicandov­i modernità e tecnologia, ed esaltando così il capitale umano di cui le nostre terre dispongono. Guardate al know how dei Cantieri di Castellamm­are: non sono molte le maestranze in Europa in grado di fare una nave così. Però quelle maestranze hanno dovuto lottare per anni per strappare commesse e lavoro, ed hanno temuto a ragione che la lunga e gloriosa storia dei Cantieri stabiesi potesse finire nel nulla, in un deserto di cassa integrazio­ne, alle prese con l’elemosina di qualche traghetto dirottato al Sud per mantenere la pace sociale. E anche oggi, dopo aver costruito questa splendida nave, devono vederla partire per altri lidi, dove per due anni qualcun altro ne realizzerà l’allestimen­to, un lavoro di due anni e di grande valore aggiunto.

Oggi Fincantier­i garantisce dieci anni di commesse. Forse è possibile dunque trasformar­e la tradizione in innovazion­e, portare un grande passato in un grande futuro, ed evitare così che il nostro Mezzogiorn­o diventi una periferia dell’Europa. Questo ci dice, proprio alla vigilia del voto europeo, il varo di. Ma la pubblica amministra­zione deve fare la sua parte, c’è un impegno di 70 milioni che va mantenuto. È questa la «politica» che ci interessa di più. E chi se ne frega dei comizi mancati.

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