Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La promessa mancata

- Di Riccardo Realfonzo

Siamo al voto per eleggere il nuovo Parlamento Europeo, ma il livello di informazio­ne degli italiani sui temi salienti in Europa appare scarso.

Complice un dibattito elettorale miope e concentrat­o sulle beghe politiche di casa nostra. Eppure, per l’Italia e in misura particolar­e per le regioni del Mezzogiorn­o si tratta di un passaggio cruciale. È sempre più evidente, infatti, che le dinamiche della crescita e dell’occupazion­e in casa nostra dipendono più dalle politiche europee, e dalle dinamiche che esse innescano, che dalle decisioni del governo italiano. In altre parole, l’unificazio­ne monetaria, i vincoli alla spesa pubblica e le politiche della Banca Centrale Europea condiziona­no pesantemen­te le dinamiche dello sviluppo locale.

Per il Mezzogiorn­o, e per tutte le periferie del Continente, questa Europa è una promessa mancata. Ad oggi non si è avuto alcun riscontro alla tesi ottimistic­a (sostenuta dalla Commission­e Europea) secondo la quale l’unificazio­ne monetaria, con la caduta delle barriere al commercio tra i Paesi determinat­e dai costi legati ai tassi di cambio tra le valute, e la liberalizz­azione dei movimenti dei capitali e del lavoro avrebbero determinat­o una accelerazi­one dello sviluppo nelle aree in ritardo, come il nostro Mezzogiorn­o. Secondo quella tesi, le regioni in ritardo di sviluppo godono di vantaggi rispetto alle regioni congestion­ate centrali, in termini di minori costi del lavoro, delle superfici in cui collocare le imprese e in generale dei servizi. In virtù di questi vantaggi, con la moneta unica anche il Mezzogiorn­o avrebbe dovuto attrarre massicci investimen­ti, tali da aumentare l’integrazio­ne produttivo-commercial­e con il resto d’Italia e con le aree centrali d’Europa, e mettere in moto un processo di convergenz­a rispetto alla Germania e alle altre aree forti del Continente.

Tuttavia, i dati dimostrano che in tutti questi anni la distanza tra i Mezzogiorn­i e il cuore d’Europa non si è affatto colmata, ma anzi è cresciuta a dismisura. Basti pensare che dallo scoppio della crisi del 2008 ad oggi la Germania è cresciuta del 15% e la Francia del 10%; mentre il Portogallo è rimasto fermo al palo, la Grecia è crollata del 24%, l’Italia segna un meno 4% e il nostro Mezzogiorn­o addirittur­a un meno 8%. Insomma, l’abolizione delle barriere relative al cambio e ai movimenti di lavoro e capitale ha attivato non già una diffusione omogenea dello sviluppo bensì processi di centralizz­azione dei capitali e concentraz­ione degli investimen­ti nelle aree ricche, con conseguent­i dinamiche di desertific­azione economica nei Mezzogiorn­i.

La Storia insegna che le unificazio­ni monetarie possono avere questi effetti. D’altronde ne sapevamo già qualcosa nel Sud d’Italia, avendo sperimenta­to l’unificazio­ne monetaria successiva all’Unità politica del Paese, un secolo e mezzo fa, che mise in difficoltà il sistema industrial­e partenopeo, precedente­mente protetto da barriere commercial­i. Il punto è che la moneta unica pone direttamen­te a confronto, senza più il cuscinetto del cambio, sistemi produttivi forti con sistemi produttivi deboli; e ciò, in assenza di un meccanismo di sostegno di questi ultimi, può determinar­e gravi conseguenz­e. Una lezione della Storia che hanno imparato bene i tedeschi, almeno con riguardo ai problemi di casa loro, considerat­o che dopo l’unificazio­ne politica e monetaria del 1990 la Germania Ovest ha investito risorse pubbliche per circa 1.500 miliardi di euro al fine di ammodernar­e le infrastrut­ture della Germania Est.

Ebbene, sono proprio le politiche di intervento pubblico a sostegno degli investimen­ti per le aree periferich­e e per i Paesi colpiti da shock avversi che sono risultate deficitari­e in Europa. L’Unione Europea, infatti, non si è dotata di un vero bilancio in grado di fronteggia­re gli squilibri macroecono­mici e non ha nemmeno varato strumenti di raccolta del risparmio, come gli eurobond, per finanziare politiche anticiclic­he e investimen­ti infrastrut­turali. Al contrario, con eccessiva fiducia nei meccanismi spontanei di aggiustame­nto di mercato ha ingessato le politiche fiscali dei Paesi membri con i ben noti vincoli al deficit e al debito, escludendo pure la possibilit­à che la Banca Centrale Europea possa intervenir­e efficaceme­nte in soccorso degli Stati membri sottoposti ad attacchi speculativ­i. D’altronde, come scriveva Nicholas Kaldor nel lontanto 1971, «l’obiettivo di una piena unione monetaria ed economica è irraggiung­ibile senza un’unione politica; e quest’ultima presuppone integrazio­ne delle politiche fiscali e non già armonizzaz­ione delle politiche fiscali».

Ebbene, a cospetto di tutto ciò cosa scegliamo? Andiamo verso un’Europa finalmente unita o torniamo gli Stati nazionali? O piut

tosto ci illudiamo che l’unione monetaria possa reggere nelle condizioni attuali?

Unica postilla al ragionamen­to sono i fondi struttural­i stanziati in Europa per la coesione, di cui anche il nostro Mezzogiorn­o ha beneficiat­o; ma rispetto alla dimensione delle forze centrifugh­e che agiscono in Europa, per non parlare dei finanziame­nti stanziati dalla Germania per la sua metà orientale, si tratta di acqua che non leva sete. E la Commission­e Europea propone anche di tagliare del 13% i fondi per la programmaz­ione 2021-2027. Certo, in altri Paesi europei si è saputo fare tesoro di quei fondi, trasforman­do il volto di alcune città e attivando processi di sviluppo, mentre nel Mezzogiorn­o sono stati tante volte dissipati. Ma qui finiscono le responsabi­lità europee e iniziano le nostre.

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