Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Per niente Candida
Cara Candida, il mio problema è la gelosia. Sono ossessionato dai sospetti, vedo pericoli ovunque. Vorrei tanto non essere ossessionato da questa morsa che mi stringe il petto e mi percuote la testa. Basta un vestito con una scollatura, una gonna, uno sguardo che qualcuno le rivolge, un messaggino a cui risponde e io non so esattamente a chi. In quel momento ce l’ho con lei, penso tutto il male del mondo, vorrei chiuderla a chiave in casa, toglierle il cellulare, staccare il telefono. Pensavo che ora che viviamo insieme la situazione sarebbe migliorata, avendola di più sott’occhio, invece si sono moltiplicate le occasioni per sospettare. Le scenate sono continue. Poi, lei fa scene di pianto, minaccia di andarsene, io mi pento, mi sento stupido, mi sento ridicolo. Il fatto è che lei ha un modo naturale di piacere alle persone, è impossibile non notarla, non esserne attratti, mentre io sono più chiuso, riservato con gli altri, lei dice «musone». Io quando vedo quel suo modo di piacere a tutti, vorrei metterla sotto chiave e preservare dagli sguardi e dall’attenzione del mondo quel tesoro che lei sciupa e contamina, offrendolo ad altri e non solo a me, che sono l’unico, vorrei essere l’unico.
Pietro
Caro Pietro, vedo varie alternative. Può mettere il burqa alla sua compagna e finire per farsi odiare. Può segregarla in casa e l’unica cosa che otterrebbe è trovarsi a sua volta chiuso in una prigione per sequestro di persona. Non c’è niente di più efficace della gelosia per ottenere il risentimento e la repulsione della persona amata. Parlo della gelosia, come la raccontava Oriana Fallaci in Un uomo, la gelosia «che svuota le vene all’idea che l’essere amato penetri un corpo altrui, la gelosia che piega le gambe, toglie il sonno, distrugge il fegato, arrovella i pensieri, la gelosia che avvelena l’intelligenza con interrogativi, sospetti, paure, e mortifica la dignità con indagini, lamenti, tranelli facendoti sentire derubato, ridicolo, trasformandoti in poliziotto inquisitore carceriere dell’essere amato». Questa gelosia, che è la sua, disintegra la persona che ama e disintegra lei stesso, umiliando ai suoi stessi occhi la sua intelligenza. Quando autosabotiamo un amore, stiamo sempre sabotando una parte di noi. Ogni volta che siamo ossessionati dal senso di possesso, stiamo fraintendendo un segnale che l’istinto ci dà. Lei, chiuso e riservato, non riesce a comprendere il modo bello e istintivo della sua compagna di aprirsi al mondo e risultare naturalmente attrattiva. Invece, dovrebbe. Scoprirebbe che quell’empatia è una risorsa per entrare in connessione con gli altri, tessere reti di sostegno reciproco o di collaborazioni costruttive. Il modo che la sua compagna ha è qualcosa che lei deve diventare e di cui non può appropriarsi illudendosi di possedere lei. Quando amiamo qualcuno diverso da noi e che non riusciamo a capire, finiamo per distruggere lui e quella parte di noi che ci chiede di sbocciare alla vita. La gelosia e il senso di possesso sono, paradossalmente, una lotta per diventare quello che vogliamo distruggere.
Sì alla pausa, ma solo se condivisa
Cara Candida, ho un compagno con cui convivo da qualche anno, ma ultimamente, anche per lo stress dovuto al fatto che vorremmo dei figli che non arrivano, abbiamo iniziato a litigare. Lo stress è alto, abbiamo iniziato a rinfacciarci tante piccole cose, anche non essenziali. O ci teniamo il muso per giorni, o volano parole forti. O stiamo distanti per settimane. Io credo che, alla base, c’è la tensione per le cure che abbiamo fatto, cercando di conciliarle con la frenesia di due vite in cui tutti e due lavoriamo e siamo molto impegnati. Di base, siamo due persone che si amano e vogliono stare insieme, ma stiamo attraversando un periodo difficile. Lui non capisce il mio stress dovuto alle cure ormonali, alle scadenze, alle corse, all’alternanza di speranza e delusione. Abbiamo già deciso di sospendere questo iter, almeno per ora. Mi chiedo se non sia il caso che ci prendiamo anche una pausa di riflessione. Vorrei domandargli di uscire di casa per un po’, cosa che so già che prenderebbe male. Voglio farlo lo stesso, però. Ma per quanto? Due settimane? Un mese? Tre? E ho paura che lui torni da sua madre, la quale mi detesta, e che se ne faccia influenzare.
In forse e Infelice
Cara In forse e Infelice, la «pausa di riflessione» è un rischio che spesso fa capire a uno dei due che, da soli (o con un altro), si sta meglio. Riflettere è sempre meritorio, ma riflettere su cosa sono insieme due persone è un esercizio assai astratto quando è privo del riscontro e della verifica all’interno della relazione. Si può riflettere per conto proprio ma poi è facile prendere direzioni che diventano rette parallele destinate a non reincontrarsi mai. Perciò, la pausa di riflessione ha senso quando non è disgiunta dal confronto. Non quello astratto e razionale, che facilmente porta ad arroccarsi su posizioni opposte, ma quello calato nell’azione, nei fatti, nella realtà. Le cose, tutte, che si parli d’amore o d’altro, si capiscono stando dentro il problema e affrontandolo, non scansandolo e sperando che si risolva da solo. Si può staccare un po’, per recuperare fiato, riprendere lucidità, reimparare a vedere la situazione da fuori, ma quello che crediamo d’aver capito aspetta la prova dell’incontro non solo a parole, ma sul campo, nelle interazioni normali che costituiscono occasioni di incomprensione e di scontro. A mio avviso, le pause di riflessione hanno senso se sono brevi e se la decisione è condivisa. Anche se lei, dentro di sé, ha già deciso, faccia in modo di non far passare la pausa come un diktat, una ritorsione, un’imposizione. Bisogna riflettere in due. Se non è così, la parte debole passa il tempo a macerare nell’incertezza o, peggio, a covare rancore e risentimento. Mettere fuori casa un marito per un tempo indefinito, finché noi non abbiamo riflettuto, è come metterlo in punizione e spingerlo fra le braccia della prima che passa di lì. Aggiungo: parcheggiarlo da una suocera a noi ostile, nel frattempo che ci pensiamo su, è come parcheggiare l’auto lasciandola aperta con le chiavi nel cruscotto.