Corriere del Mezzogiorno (Campania)
SIMM’ ‘E NAPULE PAISA’
Siamo fatti così e temo che non cambieremo. Siamo quelli del «chi ha avuto, ha avuto, ha avuto / chi ha dato, ha dato, ha dato / scurdammoce ‘o passato / simm’ ‘e Napule paisa’». Serve a poco, purtroppo, discutere della nostra storia, come stiamo facendo in queste settimane partendo dai due ottimi libri di Marco Demarco e Gigi Di Fiore dedicati a quell’oscuro e ambiguo cromosoma chiamato «napoletanità». Alla fine tutto passa in cavalleria e gli interessi individuali prevalgono sul bene comune. Ne volete una prova? Bene, riavvolgiamo il filo della travagliata vicenda che recentemente ha segnato Città della Scienza. De Luca nomina Riccardo Villari alla guida della Fondazione: una scelta sbagliata, non c’è dubbio, perché un incarico del genere doveva essere affidato a un manager di provata esperienza e non a un politico. La reazione del mondo scientifico è immediata: petizioni, polemiche, dimissioni dei soci storici dal consiglio generale. Sembra che la struttura di Bagnoli sia diventata la sentina di tutti i vizi. Poi il governatore indovina la mossa: chiama Luigi Nicolais, ex ministro ed ex presidente del Cnr, a dirigere il comitato scientifico. D’improvviso i ribelli sotterrano l’ascia di guerra e tornano sui loro passi. Eppure il «famigerato» Villari, l’uomo che avevano additato come il male assoluto, piazzato lì in nome di accordi elettorali, è ancora al suo posto. Cosa è cambiato? Si dirà: la nomina di Nicolais rappresenta la garanzia scientifica che chiedevamo.
E allora perché non si è aspettato quest’ultimo incastro prima di urlare allo scandalo? Forse perché quella parte del mondo accademico coinvolta nella storia — e che casomai ambiva al vertice — voleva plasmare gli assetti della Fondazione? Sia chiaro: parliamo di cose lecite, che rientrano (piaccia o meno) nella consueta dialettica tra i poteri. Ma è altrettanto lecito invocare una spiegazione del repentino dietrofront (in alcuni casi perfino grottesco), visto che Città della Scienza
è finanziata con il denaro dei cittadini. Nessuno qui vuole ergersi a guardiano della morale: in giro ce ne sono già troppi. E poi la morale è una febbre che ciascuno misura con il suo termometro, facendo mutare la temperatura in base al proprio tornaconto. L’etica (in particolare quella pubblica) è una faccenda molto più seria che impone di rispondere, a se stessi e agli altri, delle proprie azioni. L’esatto contrario, insomma, dell’antico ritornello «scurdammoce ‘o passato / simme ‘e Napule paisa’» che da sempre condanna questa città all’irrilevanza nel confronto con la modernità. Bene fa Gigi Di Fiore, nel suo volume, a guardare il presente dalla parte delle radici e altrettanto bene fa Marco Demarco, con «Naploitation», a tracciare un domani possibile. Ma finché il notabilato delle professioni terrà in ostaggio il nostro destino difficilmente riusciremo a sciogliere
le vele per salpare verso l’orizzonte.
In un territorio da troppo tempo orfano di un diffuso spirito imprenditoriale — dove le poche aziende d’eccellenza che hanno scelto di restare in loco sono costrette a lottare ogni giorno contro l’ottusità della burocrazia, l’assenza di servizi decenti e la mancanza d’infrastrutture per mantenere un ruolo nel mercato globale — la nostra classe dirigente è diventata fatalmente l’espressione di quei ceti che, per loro stessa natura, si basano sulla trasmissione ereditaria del potere (e del patrimonio). Il loro obiettivo è mantenere lo status, eventualmente rafforzarlo, ma non certo redistribuire la ricchezza e alterare gli equilibri sociali. Ecco perché, negli ultimi vent’anni, Napoli ha percepito la modernità — e il progresso, in generale — come una forza ostile che l’avrebbe costretta a disegnare un futuro e a scardinare le vetuste consorterie che — da salotti,
atenei e studi professionali — governano sotto traccia la città. Non importa che buona parte di questa (presunta) classe dirigente si dichiari progressista votando per la sinistra: nei fatti, la matrice del suo agire è conservatrice, refrattaria per costituzione al profondo ricambio generazionale che sarebbe indispensabile per una svolta. Preferiamo, insomma, rimirarci nello stagno di un inesausto e rassicurante narcisismo invece di volgere lo sguardo verso il mare e le sue rotte ignote.
Così, poco a poco, siamo diventati provincia, grande per perimetro ma striminzita nell’anima. E della provincia abbiamo assimilato i vizi: le maldicenze, il moralismo, le misere convenienze, la sostanziale indifferenza verso ogni prospettiva di cambiamento. D’altronde, questo accade quando la Politica si ritira e lascia terreno libero ai masnadieri. In una città dove non esiste più uno straccio di partito, il rispetto delle leggi è diventato un’opzione e manca un progetto che ne definisca l’identità per gli anni a venire, era scontato che il vecchio mondo piantasse le tende. E che nell’accampamento risuonasse sempre più forte una decrepita canzone: «Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto / Chi ha dato, ha dato, ha dato / Scurdammoce ‘o passato / Simme ‘e Napule paisa’».
Tocca a noi, ora, cancellarne l’eco riprendendo in mano i fili di un confronto sulla modernità appassito in fretta. Tocca a noi fare un passo indietro (o almeno di lato) affinché ci sia spazio sul proscenio anche per le nuove generazioni. Napoli possiede le energie per farlo. Basta cercarle. Il passato è importante ma, se rimani a fissarlo troppo a lungo, ti scaraventa all’inferno. Meglio guardare avanti senza dimenticare le impronte lasciate lungo il cammino.