Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La napoletanità? Da luogo comune diventi ricchezza
Idiscorsi intorno ai caratteri o, per dirla con Leopardi, ai costumi delle genti son sempre difficili e ambigui. Il rischio in agguato è parlare di qualcosa di cui si revoca in dubbio persino l’esistenza. Infatti, per parafrasare un noto titolo, di cosa parliamo quando parliamo, secondo Sciascia, di sicilitudine piuttosto che di sicilianità? Oppure, per cambiar «popoli», cos’è la romanità di Trilussa o la milanesità del Gran lombardo? E, per venire alla questione delle questioni, cos’è la napoletanità che, secondo Raffaele La Capria, non è da confondere con la napoletaneria?
Ecco, se il nuovo libro di Marco Demarco ha un merito - e ne ha più d’uno - è proprio questo di farla finita con la metafisica della napoletanità per approdare alla storia di Napoli e alle molte opere della sua cultura.
Il lettore di Napolitation. Napoli, la tradizione e l’innovazione (Guida) si troverà dinanzi da una parte alla critica della ragion politica della seconda metà del Novecento - Lauro rivalutato e le mani sulla città sì, ma dei democristiani e della sinistra - e dall’altra a una quantità e una qualità di contenuti come Salvatore Di Giacomo e la canzone, i De Filippo e il teatro, Totò e il cinema che non solo, forse, in qualunque altra città italiana, ma anche in qualsivoglia altra città d’Europa avrebbero avuto il giusto riconoscimento del loro valore universale. Invece, dove son finiti a Napoli? Nella napoletanità della quale, secondo la cultura politica, ci si deve vergognare o dalla quale si deve rifuggire perché è solo uno stereotipo. Sennonché, Demarco viene a capovolgere criticamente il pregiudizio negativo in giudizio positivo dicendo che la vera vergogna è il provincialismo che non si rende conto, magari per partito preso, che una cultura come quella che ha espresso, ad esempio, Giuseppe Marotta è per davvero l’oro di Napoli.
Il libro di Marco Demarco non solo fa dialogare Napoli con il mondo - cosa abbastanza facile visto che Napoli è un mondo nel mondo - ma, soprattutto, mette in rapporto la città con sé stessa e il suo è il tentativo di mettere a tema Napoli puntando proprio su quella linea d’ombra che la cultura politica ideologica ha apertamente disprezzato e confinato nel folklore. Forse, per il giornalista e, mi permetto di dire, per il meridionalista fare i conti con la napoletanità è quasi un’ossessione privata o, come avrebbe detto Ruggero Guarini, è una fisima a sua volta napoletana; eppure, le ossessioni nascono da reali problemi storici e politici e in questo caso l’ostacolo che Demarco individua sulla via del progresso meridionale è la svalutazione di un grandissimo patrimonio d’arte e di cultura da cui, invece, può dipendere non semplicemente il rilancio di Napoli ma la sua stessa possibilità di essere città. Insomma, la napoletanità non dovrebbe essere più, come in La Capria e in Antonio Ghirelli, un surrogato dell’Armonia perduta nel 1799 tra borghesia e plebe perché, invece, è essa stessa l’Armonia ritrovata e tanto attesa per tenere nella stessa barca i «due popoli» di Vincenzo Cuoco.