Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il dottor Cimmino e ‘o Pallone

- di Fortunato Cerlino

Il dottor Cimmino è persona discreta, riservata. Pur non essendo incline all’autocompia­cimento, si è sempre ritenuto un soggetto serio e affidabile. Da anni è responsabi­le di un atelier molto rinomato nel centro di Napoli. Tra i suoi clienti vanta politici di rilievo nazionale, tra i quali anche qualche capo di stato, membri dell’aristocraz­ia, importanti manager e persino qualche selezionat­o esponente del mondo dello spettacolo. Questi ultimi, Cimmino li tratta con garbo e gentilezza, ma in cuor suo li ritiene personaggi di secondo piano. Casi clinici che per loro fortuna sono riusciti a mutarsi in patetici sentimenta­li di talento. Una piccola eccezione è disposto a farla per i teatranti, ai quali almeno è dato ripetere parole scritte da autori degni di nota.

Quello che davvero ha in odio Cimmino, è il calcio con tutti i suoi annessi e connessi.

«Ma quand’anche tu ‘sta palla l’hai presa, e magari sei riuscito anche a fargli fare qualche piroetta divertente, e poi forse l’hai pure infilata in una rete, ma mi dici che hai fatto? Al circo si vedono cose ben più strabilian­ti!». Usa dire compassato a chi talvolta gli chiede conto della sua avversione.

Figuratevi il suo stupore quando questa mattina suo figlio Luca di undici anni gli ha finalmente confessato quello che vuole fare da grande.

«Dimmi a babbo, vuoi fare l’avvocato? L’architetto? Il professore universita­rio?».

«No papà». Il bambino prevedendo già la reazione del padre, ha abbassato lo sguardo. «Io voglio giocare a pallone».

Ne è seguito un silenzio assordante. Lucrezia, la moglie di Cimmino, si è avvicinata al piccolo cingendolo per le spalle. L’uomo però non si è scomposto. Si è limitato ad indossare il cappotto, poi i guanti, ed infine con l’ombrello poggiato sul polso ha infilato la porta di casa.

Durante il percorso per recarsi a lavoro, ha rimuginato a lungo chiedendos­i in cosa abbia sbagliato nell’educazione del suo unico figlio maschio. In casa ha sempre dato un buon esempio. Spesso lo ha portato nel suo negozio e gli ha parlato dell’importanza del suo lavoro. «Vedi, io qui dentro, vesto la storia!». La sua laurea in filosofia appesa in bella mostra. «Gli abiti che seleziono sono trattati di pensiero. Non basta che uno stilista sia famoso, deve anche essere consapevol­e del suo ruolo sociale. Solo a quelli mi rivolgo per vestire i miei clienti».

Cimmino prova a distrarsi leggendo il quotidiano che il suo autista, Gennaro, gli fa trovare tutte le mattine sul sedile della sua Mercedes.

«Pure l’ho iscritto ad una delle scuole private più costose della città. Lì praticano esclusivam­ente esercizi di atletica e scherma, discipline che richiedono sforzo fisico e cervello».

Cimmino però, non è persona rigida. Mette spesso in discussion­e le sue valutazion­i e prima di formarsi un’idea definita elabora e rielabora i concetti anche confrontan­dosi con chi ne sa più di lui. Forzando la sua volontà, apre le pagine in fondo al Corriere del Mezzogiorn­o e si immerge nella lettura di qualche articolo sportivo. Volendo però capirne di più, decide di interrogar­e il suo autista.

«Gennaro caro, mi risponda sinceramen­te. Lei segue il pallone?».

L’uomo, che non abituato a sentirsi rivolgere la parola, trasale.

«Non ho capito dottó?».

«Il pallone. Il calcio. Le piace?». Conoscendo la proverbial­e avversione di Cimmino per quello sport, Gennaro tentenna.

«’O pallone dite?».

«Sì».

«Vabbè, come dire… è uno sport!». Intuendo che il suo autista non è disposto a rischiare il posto di lavoro, Cimmino decide di provocarlo.

«Vede Gennaro, io mi sono convinto che il Napoli, la squadra di calcio intendo, sia una equipe di merda!».

Gennaro non riesce ad evitare uno sguardo sprezzante al suo datore di lavoro attraverso lo specchiett­o.

«Equipe starebbe per squadra, giusto dottó?».

«Esatto, e merda starebbe per merda».

L’autista cerca di controllar­si. «Non lo so. Certo quest’anno è partito male. Lozano l’avimme pagato quarantadu­e milioni e ancora nun s’è scetato!». «L’avimme, chi?».

«Noi, la società».

«Lei Gennaro fa parte della dirigenza della società calcio Napoli?».

«No, ma che significa. Io tengo l’abbonament­o. Io, mio figlio, mio cognato. Pure tre miei nipoti. Insomma, le nostre cento euro le abbiamo messe».

«Capisco. Soldi buttati nel cesso. Avrebbe dovuto comprare l’abbonament­o della Juve. Una squadra seria, di profession­isti consapevol­i. Se proprio uno deve sprecare la sua vita correndo dietro un pallone, almeno deve saperlo fare».

Gennaro diventa rosso per la rabbia. «Non trova?». Lo incalza Cimmino. «Starebbe bene con una maglia bianconera».

L’auto si arresta all’improvviso. «Dottó, scendete da questa macchina!».

«Non capisco».

«Fatemi il favore, scendete con le vostre gambe».

Cimmino, oltre ogni misura stupito e preoccupat­o per il tono che ha preso quello scherzo, apre lo sportello e scende in mezzo al traffico cittadino. Prima di andare via, Gennaro apre il finestrino e gli rivolge ancora poche accorate parole.

«’O pallone è na cosa seria dottó, soprattutt­o per chi non tiene niente. Quei ragazzi ci fanno diventare re pure se non avremo mai un regno. Voi non lo capite perché tenete altri modi per svagarvi, ma per la gente come me, ‘o pallone, è questione ‘e sopravvive­nza. Avete offeso la mia dignità». Prima di ingranare la marcia, aggiunge. «E comunque, Luca è bravo assai. Tiene un futuro quel ragazzo. Sono io che l’ho accompagna­vo due volte a settimana a scuola calcio. L’ho visto giocare. È nu Dio, altro che un venditore di stracci come voi».

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