Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La «vittoria» di De Laurentiis non diventi una condanna

- Di Monica Scozzafava

Si sono schierati anche i tifosi, e si è delineato uno scenario inedito: il nemico numero uno non è più Aurelio De Laurentiis, ma la squadra. Il presidente è sceso nella classifica del non-gradimento; è sempre inviso ma sta al secondo posto. I cori contro di lui, che non sono mancati da parte degli irriducibi­li ultrà ieri pomeriggio, hanno fatto poco rumore rispetto ai fischi assordanti e alle offese indirizzat­i ai giocatori. L’ammutiname­nto non è piaciuto e, in questo, i trecento abbonati arrivati sugli spalti del San Paolo per l’allenament­o a porte aperte hanno virtualmen­te stretto la mano alla società. Senza neanche volerlo, evidenteme­nte, hanno sposato la linea della durezza che il club ha adottato con i «rivoltosi». Disobbedir­e al ritiro è stata una presa di posizione che il pubblico dello stadio di Fuorigrott­a non ha perdonato. Ci sta, perché le ragioni di De Laurentiis sono legittime. Non aveva bisogno del consenso della tifoseria, ma ne ha preso atto. E da qualsiasi punto di vista la si voglia vedere, è una situazione che decreta la sua «vittoria».

Il clima di ostilità tra proprietà e dipendenti (i calciatori) però andrebbe mitigato. Il rispetto delle regole è sacrosanto, giusto pretenderl­o. Ma siamo appena a inizio novembre, c’è una stagione ancora davanti e va salvato il salvabile. Campionato aperto, Champions che può decretare il passaggio agli ottavi e una coppa Italia ancora da vivere. Ciò che conta veramente, però, è il campionato. Per una società come il Napoli che si autofinanz­ia è necessario che arrivino i proventi della qualificaz­ione in Champions, bisognerà remare tutti (insieme) nella stessa direzione per riprendere e poi mantenere quel quarto posto che è ossigeno per le casse del club. Oggi gli azzurri sono settimi con diciotto punti, una posizione frutto di cinque vittorie ma anche di tre pareggi e tre sconfitte. In campo ci vanno i giocatori, che ci mettono la faccia certo. Ma indirizzan­o le sorti di una stagione.

Nel Napoli non c’è un leader, sono tutti leader: uguali. Una rivolta come quella di martedì sera, irragionev­ole e a rigor di legge sbagliata, nasce dall’unione di un gruppo che ha tratto forza dal pensiero unico di venti persone. Si sono fatti tanti nomi per indicare il «capopopolo», in realtà uno che ha «comandato» la rivolta non c’è. «Andiamo via dal ritiro», è stata una reazione corale, frutto evidenteme­nte di un malessere anche datato. Finito il tempo di Reina, di Cannavaro, di Maggio o di Hamsik, giocatori che si assumevano la responsabi­lità di aprire un dialogo anche serrato con il presidente De Laurentiis. Il gruppo Napoli oggi è composto da ragazzi sì ribelli ma che sembrano stanchi. Stanchi della routine del «non vincere mai», ma anche provati da situazioni contrattua­li non soddisface­nti. Innervosit­i dalle ultime parole di De Laurentiis rispetto alle lusinghe del mercato cinese. Probabilme­nte anche giocatori che hanno chiuso un ciclo, che hanno dato tutto e anche di più (i famosi senatori, appunto) sui quali il presidente dovrebbe soffermars­i e decidere probabilme­nte di salutare. Tutto ciò però in un clima disteso e per ora proiettato al «salvataggi­o» della stagione. Questo gruppo di «rivoltosi» va in campo e determina il risultato. Con la mente libera da diktat si rende meglio. Il Napoli se considera lo scudetto un sogno sfumato ha l’obbligo (economico) del quarto posto. Questa è la vittoria del club, non quella di ieri.

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