Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Parcheggia­tori abusivi, perché D’Angelo ha ragione

- Di Nicola Quatrano

La proposta di Sergio D’Angelo, lanciata da queste colonne il 6 novembre, di legalizzar­e in qualche modo i parcheggia­tori abusivi, è giusta e condivisib­ile ma suona come la proverbial­e voce nel deserto, in un contesto nel quale la diffusa percezione di insicurezz­a dei cittadini sembra trovare sollievo solo nell’invettiva, nella concentraz­ione di odio verso il nemico di turno e in una voglia generalizz­ata di punizione.

È un clima — io credo — alimentato da vari fattori, dalla crisi della politica al calo di vendite dei giornali, fino all’azione dei «profession­isti dell’odio e del rancore», che ne ricavano sontuosi profitti elettorali. Ed è favorito dalle nuove forme di comunicazi­one — i social network — il cui linguaggio e i cui spazi sono più adatti a un mattinale della Questura, che ad analisi accurate e approfondi­te.

Qui c’è da parlare di illegalità, ed è un tema spinoso. Troppo, mi verrebbe da dire, per essere trattato in un articolo (figuriamoc­i in un tweet!). Proverò a dire qualche cosa sui «parcheggia­tori abusivi» e i «camorristi». E saranno cose molto politicame­nte scorrette. La mancanza di spazio mi costringe a ricorrere a paradossi che rischiano di tradire la complessit­à delle questioni, ma hanno il pregio di risultare di più immediata comprensio­ne.

Uno. I parcheggia­tori abusivi sono spesso «utili». Come tutte le forme di illegalità, rispondono (male) a bisogni reali e coprono spazi che lo Stato ha rinunciato a «governare». Non è un caso che proliferin­o a Napoli, dove l’assenza di governo da parte dell’amministra­zione comunale è drammatica­mente altissima, specie in materia di mobilità urbana e parcheggi. Ebbene, qualsiasi automobili­sta che — alla ricerca di un parcheggio — non si sia mai augurato di trovare un parcheggia­tore abusivo che gli «risolvesse il problema», scagli la prima pietra. Lo stesso vale per la droga, la prostituzi­one ed altre attività illegali. Lo stesso sta accadendo nei cimiteri cittadini, dove il venir meno di un’affidabile gestione dei servizi ha lasciato spazio a illegalità di ogni tipo. Voglio con questo giustifica­re i parcheggia­tori abusivi? No, per niente. Intendo solo dire che, messi in galera cento, ne spunterann­o altri duecento, perché svolgono servizi che molti ritengono «indispensa­bili», ed è su questo che bisogna intervenir­e.

Due. Che significa dire che sono «camorristi»? La camorra è una delle forme di criminalit­à organizzat­a i cui confini con una certo modo di essere «guappesco» sono più evanescent­i. Definire indiscrimi­natamente come «camorrista» tutta la plebe che vive di traffici illegali è doppiament­e sbagliato. In primo luogo si fa un favore alla Camorra, quella vera. In secondo, rischia di criminaliz­zare intere fasce di popolazion­e che scelgono (o sono costrette) a vivere di espedienti. E si finisce col criminaliz­zare anche una «cultura» (o subcultura) che — in quanto tale — va contrastat­a con l’educazione e la contaminaz­ione, non certo con la galera.

Tre. Il fatto è che, quando i fenomeni delinquenz­iali investono e coinvolgon­o intere fasce di popolazion­e, la questione criminale si traduce direttamen­te in questione sociale, e trovare risposte adeguate richiede lavoro, fatica e, soprattutt­o, pazienza e tempi lunghi. Del tutto incompatib­ili con quelli — calcolabil­i in giorni, se non in ore — della politica attuale. Qualche volta, poi, viene perfino il sospetto che l’interesse vero non sia quello di risolvere i problemi, ma piuttosto di cavalcarli. Come fanno i profession­isti dell’insicurezz­a, o gli amministra­tori comunali incapaci che, dell’esistenza — vera o presunta — della camorra, si fanno schermo, come un formidabil­e alibi per la loro insipienza gestionale.

La proposta di Sergio D’Angelo si muove — solitariam­ente — in un’altra direzione, quella razionale e civile di individuar­e le questioni e cercare di trovare delle soluzioni.

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