Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Ricordo Daniela e la sua vita ricca di passioni
Ègià trascorso un mese da quando Daniela Lepore ci ha lasciati il 7 ottobre. La intensa commemorazione tenuta due giorni dopo nel cortile di Palazzo Gravina ha raccolto i mondi variegati che Daniela aveva vissuto nella nostra città. Allora una commozione incontenibile mi aveva impedito di unire un contributo ai ricordi di molti amici. Tento di farlo oggi.
Il primo ricordo è legato all’inizio degli anni Ottanta quando lei era studentessa della Facoltà di Architettura e frequentava il mio corso di Urbanistica. Si avvertiva ancora l’eco dei ruggenti anni del dopo Sessantotto. Un’eco che lei custodiva in un atteggiamento critico, ironico, elargito a piene mani. E che ritrovavo nelle riunioni dell’Istituto Gramsci guidato dal padre Ettore, affermato storico dell’antichità, dove lei svolgeva un’attività di segreteria. Un atteggiamento appena disciplinato negli anni Novanta nello sforzo comune di creare il dipartimento, il corso di laurea e il dottorato di ricerca in Urbanistica storicamente assenti nella Facoltà di Architettura di Napoli. E ancora nell’attività di editor nella rivista CRU. Critica della razionalità urbanistica che avevamo promosso. Portava avanti così un impegno assoluto ben presto incanalato nell’attività di ricercatrice prima e di docente subito dopo.
Nella mia memoria Daniela è legata a tre grandi passioni: quella per gli studenti, quella per Napoli e quella per una forma partecipata di governo del territorio. La porta della sua stanza in dipartimento era sempre aperta e quasi tutti i giorni Daniela sostava sulla soglia, attorniata da frotte di studenti, a discutere animatamente. Li curava uno ad uno, districandosi amorosamente e abilmente tra indicazioni disciplinari e suggerimenti per risolvere le immancabili complicazioni burocratiche. Lo faceva spesso in sintonia con un gruppo di colleghi, che è andato a estendersi nel tempo, da Federica Palestino e Giovanni Laino, a Laura Lieto e Michelangelo Russo i più vicini. Si muoveva in forte collegamento con il Politecnico di Milano, dove talvolta indirizzava i migliori laureati a proseguire negli studi. A Napoli, alla sua struttura urbana, ha dedicato ricerche, saggi, articoli e impegno civile. A lungo in forte sintonia con Vincenzo Andriello, amato riferimento scientifico (rigoroso studioso, assistente al mio corso di Urbanistica sin dai primi anni Settanta, scomparso prematuramente sedici anni fa). Insieme nel 1987 per conto del sindacato metalmeccanico (la Uilm guidata da Enrico Cardillo) e con il contributo della società Ilva svolgemmo una vasta ricerca storicomorfologica sull’insediamento siderurgico di Bagnoli, intitolata Il luogo e la fabbrica, pubblicata poi dalla Graphotronic: «Una grande fabbrica è anche un pezzo di città. Nella sua lunga vita essa ha conformato i suoi intorni e ne è stata modificata», così recitava il risvolto di copertina del ponderoso volume. Lì nasceva in Daniela l’interesse per un luogo che conservasse, innovandola, l’impronta produttiva, un interesse continuamente aggiornato nella lunga e penosa vicenda del mancato riuso di quell’area. A fianco, l’attenzione per le periferie e in particolare per Scampia e le Vele.
Fuori dal centro non c’è il Bronx titolava dieci anni fa un suo paper scritto con Gilda Berruti per l’Istituto nazionale di Urbanistica; e nel 2005 in un volume curato da Braucci e Zoppoli dal titolo emblematico Napoli comincia a Scampia si schierava contro la demonizzazione di quel quartiere, con toni talvolta ironici come nell’ articolo A sgonfie Vele. Un’attenzione che focalizzava un ragionamento più ampio sull’area metropolitana condotto con Francesco Ceci nel volume Arcipelago napoletano. Nel suo modo di essere urbanista sorretta da un intenso impegno civile, la ricerca di prospettive inclusive d’intervento per la trasformazione della città tornava in maniera assillante sotto forma di bilancio delle pratiche partecipative e di attenzione per un consenso sociale raggiunto attraverso il dibattito pubblico; collaborando con “Lo Straniero” di Goffredo Fofi apriva un Diario (rabbioso) di un cittadino troppo informato, e in un volume dedicato alla ricerca di nuove espressioni di piano scriveva quasi infastidita Se la partecipazione non è una moda.
Personalmente ho continuato a seguire il suo percorso anche dopo la conclusione nel 2010 del mio impegno diretto nell’Università. Ogni tanto ci sentivamo. Io, non so perché, da sempre non la chiamavo, come gli altri, Daniela, Dani, ma Lepora. Se qualche volte me ne dimenticavo, lei mi correggeva: «Lepora». A settembre quando, molto tardivamente, sono stato informato della sua malattia, lei si è raccomandata di nascondermene la gravità: per proteggermi, per mitigare il mio dispiacere. Ciao, Lepora. Se esiste un aldilà, sono sicuro, intreccerai una conversazione infinita, ironica, densa di dissensi, ma anche di consensi, con tuo padre Ettore e con Vincenzo Andriello, per poi allargarla, coinvolgendo molti, sempre di più.
” Lei si è assicurata di nascondere la gravità del suo male: per proteggermi e mitigare il mio dispiacere Ciao, se esiste un aldilà, sono sicuro, intreccerai conversazioni infinite