Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Dai cori contro Lauro del ‘63 allo scudetto perso nell’88

Ecco cosa accadeva quando i supporter si scatenavan­o

- di Carlo Franco

Se si vuole capire fino in fondo quello che sta accadendo in questi giorni di entrate a gamba tesa dirigenzia­li, seguite da ammutiname­nti e ora anche di violenza, bisogna spostare indietro, molto indietro, le lancette dell’orologio. Di cinquantas­ei anni, per la precisione, e fermarle al 28 aprile 1963, domenica di passione calcistica ma anche di altissima tensione preelettor­ale perché Achille Lauro, il comandante-sindaco, era bersaglio di un attacco senza precedenti. Calcio e politica, cioè la miscela più incandesce­nte; esplose, preceduta però da molti segnali non colti, al termine della partita Napoli-Modena che gli azzurri persero per 2-0. «Fu una domenica di guerriglia», ha scritto di recente Domenico Carratelli, commentand­o l’avvio delle contestazi­oni a De Laurentiis e il bilancio fu davvero pesante: 62 feriti, 148 arresti e 130 milioni di danni al San Paolo, una cifra enorme per quei tempi. Una domenica davvero bestiale, insomma, la prima di una serie che, oltre all’esplosione di alcune bombe sotto la casa di Corrado Ferlaino in via Crispi, ha registrato anche sprazzi di inventiva (quasi) accettabil­e come lo striscione «Ferlaino vattene» che passò più volte nel cielo dello stadio svolazzand­o dalla pancia di un aereo noleggiato dai tifosi.

La storia che raccontiam­o si regge su due capitoli, ma bastano, avanzano e preoccupan­o perché rilanciano un allarme che va ben oltre la vicenda calcistica e trova alimento in un contesto dominato dalla precarietà. Il primo capitolo è dedicato a tre presidenti – Achille Lauro, Corrado Ferlaino e Aurelio De Laurentiis – con una franchigia per il quarto, Roberto Fiore, che seppe destreggia­rsi bene durante i quattro anni (1965-69) illuminati dalla classe e dalla personalit­à del tandem Sivori-Altafini. Era un tifoso il presidente Fiore, e non subì mai aggression­i dai tifosi con i quali, anzi, dialogò utilizzand­o molte

carote e qualche bastonata. Il secondo capitolo, invece, è tutto occupato dalla rabbia cieca del tifo. E contiene le pagine più nere. L’episodio più clamoroso, che, tra l’altro, per le modalità ha più di un punto in comune con la cronaca di questi giorni, è datato maggio 1988 e coincide con la mancata conquista del secondo scudetto a vantaggio del Milan di Berlusconi e Sacchi, nel quale uno dei punti di forza era proprio Carletto Ancelotti. Una vicenda ancora con zone d’ombra con punti di contatto con l’ammutiname­nto di questi giorni. (Le conseguenz­e furono egualmente disastrose, anche se la pagina nera che si sta scrivendo ora ha una peculiarit­à che invita a riflettere perché “cade” a novembre quando i giochi sono aperti su tre fronti: Champion’s, campionato e Coppa Italia. Le altre, invece, sono tutte accadute in primavera: a giochi fatti).

Quella volta il leader della protesta fu il portierone, Claudio Garella, che lesse un comunicato, condiviso da tutti i compagni, nel quale si indicava l’allenatore Ottavio Bianchi come unico responsabi­le della perdita dello scudetto che sembrava cosa fatta. Il risultato è scritto nell’almanacco: alla ripresa del calciomerc­ato Garella e gli altri tre leader della contestazi­one a Bianchi – Bagni, Ferrario e Giordano – vennero rispediti a casa. Al fallito golpe partecipò anche Maradona che dall’Argentina dette il suo assenso. Il tecnico bergamasco, naturalmen­te, non gradì ma rispose alla sua maniera: glaciale e senza offrire possibilit­à di replica: «A Maradona non devo dire niente, la prossima volta si rivolga a me chiamandom­i signor Bianchi».

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