Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«Io, chirurgo in missione nel Sudan»
Giovanni Mazzone si è impegnato al massimo in Africa al seguito di Medici Senza Frontiere «È un’esperienza che consiglio agli specializzandi, qui si ha l’esatta percezione di questo lavoro»
«Quando ero in missione nella Repubblica Centroafricana le pallottole arrivavano anche dentro all’ospedale. Ovviamente quando si è in missione non mancano i momenti difficili e nemmeno i casi che non vanno bene. Inevitabilmente capitano pazienti che non si possono curare. È anche vero però che ci sono molte soddisfazioni. Perché essere lì significa aiutare quante più persone è possibile. Si vedono cose che non avrei mai immaginato di vedere eppure quella di Medici Senza Frontiere è un’esperienza che consiglierei a tutti, a partire dagli specializzandi, magari associati con un anziano. È l’occasione, nel nostro piccolo, di provare a fare la differenza. E vi dirò, quando sono in missione sento davvero di essere un medico che si impegna al massimo per il bene dei pazienti». A parlare è Giovanni Mazzone, chirurgo catanese di Medici Senza Frontiere partito prima in missione verso il Sud Sudan nel 2017, poi andato in Repubblica Centrafricana, e poi ancora in Malawi.
Come ha maturato la scelta di partire con Msf?
«Sin da piccolo ho avuto la vocazione della medicina e della chirurgia eppure una volta diventato chirurgo e dopo aver assecondato questa vocazione mi sono reso conto che dalle nostre parti quello che posso fare io lo possono fare tanti altri medici. Il nostro standard è su tutto il territorio, tutto sommato abbastanza omogeneo, e invece ci sono posti dove anche la cosa più piccola può fare la differenza e così ho pensato: andiamo a metter in pratica le poche cose che ho imparato di chirurgia dove c’è più bisogno e dove può tornare più utile e fare la differenza. Vi faccio un esempio stupido all’apparenza ma serve forse per capire la dimensione di quanto dico: l’unghia incarnita. Oggi si cura in un qualsiasi ambulatorio ma cosa significa per chi fa chilometri ogni giorno per andare a prendere l’acqua necessaria all’esistenza? Diventa un intervento pressoché vitale che porta un grande beneficio al paziente. E così ho deciso di candidarmi come chirurgo quindi dopo delle valutazioni sono stato considerato idoneo e sono partito di lì a poco in una prima missione. Direzione Sud Sudan,
la nazione più giovane al mondo dove da anni è in corso un’orribile guerra civile che si stima abbia già provocato 300mila vittime e milioni di sfollati e rifugiati».
Una situazione a dir poco difficile. Una bella sfida.
«Vi dirò che sono tornato a casa più entusiasta di prima del mio lavoro con Msf, perché il mondo che si trova in missione dal punto di vista medico, chirurgico e ospedaliero non ha nulla a che fare con il nostro mondo. Ma quello che è l’animo e la disponibilità degli operatori umanitari chiaramente è tutt’altra cosa rispetto alla nostra routine quotidiana. Perché ci si ritrova a lavorare spalla a spalla con tante persone da tutto il mondo che hanno in comune l’intenzione di fare qualcosa di buono in queste zone difficili. Un’intenzione condivisa dagli operatori locali. E allo stesso tempo è diverso il nostro modo di essere medici. La cosa bizzarra e bellissima è che per una volta non è il cartellino a muovere tutto. E all’improvviso scopri di essere un chirurgo 24 ore su 24, anche quando non stai lavorando. È un altro mondo e lo si nota dai pazienti».
In che senso?
«Hanno un’altra disponibilità d’animo rispetto al paziente medio dei Paesi cosiddetti evoluti. Da noi le cure sono considerate un diritto, come è giusto che sia, ma questo fa in modo che nel rapporto medico-paziente si dimentichi di dare la giusta attenzione al lato umano. Anche dal punto di vista del paziente che da noi spesso guarda al medico come un macchinario che elargisce cure. Non dimentico ad esempio un uomo che avevo in cura in Sud Sudan. Era molto grave ma aveva riaperto gli occhi sorridendo alla moglie e mormorandole qualcosa. Grazie agli interpreti abbiamo saputo che le aveva detto di avere fiducia in noi, vedeva che stavamo comunque provando ad aiutarlo. Una cosa bellissima e commovente che, ammettiamolo, non si vede molto spesso dalle nostre parti».
Mi sembra di capire che a cambiare non è solo il rapporto medico-paziente.
«In effetti ci si ritrova ad avere un altro tipo di relazione anche con se stessi. Non si è un medico che fa 20 cose diverse bensì 20 medici in uno. Non sei un tuttologo ma sei preparato, proprio grazie a Msf, ad affrontare tutto quello che può presentarsi nel corso della missione: dall’ortopedia alla chirurgia toracica e addominale e intracranica fino alla ginecologia. E l’unico chirurgo della missione deve essere in grado di fare tutto ciò per il bene dei pazienti».