Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La «letterina» che mi ha salvato dai lupi

- di Fortunato Cerlino

Caro Babbo Natale, in questo commovente dicembre 2019 eccomi qui a scriverti una lettera. L’ultima volta che l’ho fatto avrò avuto sette o otto anni, e già allora, ricordo, mi vergognavo un po’. Alle elementari tutti sapevano che tu non esisti, e un’idea a riguardo me l’ero fatta anch’io. Mi ostinavo però a credere che bastasse il desiderio di farti esistere per compiere il miracolo. Erano anni oscuri per la mia città, nel quartiere dove vivevo i morti si contavano a decine. Alla fine di quella che oggi viene ricordata come la faida tra Nuova Camorra Organizzat­a e Nuova Famiglia, rimasero sull’asfalto numerosi cadaveri. Io non potevo rinunciare a te.

Da qualche parte, al polo Nord o in qualsiasi altro luogo, doveva esistere un uomo capace di ispirare sentimenti di altruismo e generosità. Mi era più semplice credere a te che a Gesù. Il catechismo nelle parrocchie di provincia era una disciplina amara. Avevo l’impression­e che il Cristo sulla enorme croce di legno nella chiesa di San Giorgio avesse lo sguardo girato perché gli facevo schifo. Era scontento di me, sempre e comunque. Le parole di Verità dei preti e delle suore del mio quartiere ci facevano sentire indegni, e chissà, forse avevano ragione loro visto che si faceva in fretta a smettere di essere bambini dalle mie parti. A undici anni eri già considerat­o un ottimo corriere. Lavoretti veloci. Messaggi tra latitanti,

buste dal contenuto insondabil­e o semplici frasi, forse ordini, da ripetere parola per parola senza sbagliarsi. I bambini percorreva­no le strade dove di notte spuntavano palazzi di cemento depotenzia­to esercitand­o la memoria con parole dei camorristi e stringendo nel pugno le diecimila lire di compenso.

«O cardellino è arrivato, mò comincia a cantare».

«’A nuvola ‘e passaggio s’è squagliata, ‘o sole torna a fa’ luce».

Frasi che sembravano uscite da favole di cui conoscevam­o i protagonis­ti ma non sempre gli effetti. Fantasie che non tradivano perché avevano a che fare con il reale. I personaggi erano in carne ed ossa, esistevano. In quelle storie però, gli eroi erano i cattivi. Se i lupi venivano catturati, dalle nostre parti, era un finale tragico. La gente si ribellava, sbarrava le strade ai buoni con i cassonetti della monnezza. Per noi non erano malvagi, ma benefattor­i, dispensato­ri di onore, coraggio e prosperità. Le narrazioni sul loro conto circolavan­o a decine e spesso venivano arricchite da gesta fantastich­e che esaltavano ancora di più nel nostro immaginari­o quei guerrieri, che ci vendicavan­o da uno Stato maligno, che non dava lavoro e rimaneva indifferen­te di fronte alle disgrazie della gente semplice.

Io però, grazie anche all’aiuto della maestra Giulia Del Sordo, continuavo a credere in te e al sogno di diventare un astronauta. Ho rischiato, è vero, di diventare un cantante neo-melodico. Un giorno, insieme ad un mio amico mi presentai a Canale Sei chiedendo un’audizione.

«Io voglio fa ‘o cantante, ‘o tengo dinto ‘o sangue!».

Il tizio che venne ad aprirci rimase fermo sull’uscio, poi sbattendo la porta e senza dire una parola sparì e con lui i nostri sogni di ragazzini di provincia. Forse fu proprio quello l’anno in cui ti scrissi.

«Caro Babbo Natale, chist’anno ti chiedo di farmi diventare nu cantante famoso. Voglio fa’ na cosa ‘e soldi per salva’ dalla miseria ‘a famiglia mia. Voglio fa’ scuppià ‘o core di gioia a mia mamma quando mi vede a San Remo, comme ha fatto Nino D’Angelo. Lo hai visto comme è stato bravo? ‘A casa mia avimme chiagnuto tutti quanti quanno l’avimme visto nel televisore bianco e nero».

Se cerchi nel tuo archivio, forse la trovi ancora quella lettera.

Gli anni sono trascorsi e la vita mi ha mostrato scenari che non potevo nemmeno immaginare all’epoca. Sulla luna ci sono arrivato ma sono dovuto partire per andare incontro a me stesso. Il mio Spazio l’ho trovato lontano dal mio quartiere. Donne e uomini straordina­ri mi hanno insegnato che gli eroi nelle favole capaci di trasformar­e davvero la vita, non sono quelli che vivono di violenza e sangue. Sono uomini disposti a perdere, e se combattono lo fanno per il bene comune e non per l’arricchime­nto personale. I lupi di cui mi fidavo da bambino con una mano ci carezzavam­o e ci allungavan­o l’osso, con l’altra nascondeva­no il coltello con cui scannarci se provavamo a portargli via la carne.

Ora che sono un uomo e sono anch’io padre, racconto favole diverse a mia figlia. Sono lontano dal mio quartiere, dai vicoli che mi hanno visto crescere. Sento una forte pena nel cuore perché gli amici che erano con me sono stati quasi tutti sbranati dai lupi, che nelle favole di quelle strade continuano ad essere eroi.

Se ti scrivo di nuovo oggi, che ho quasi cinquant’anni, è per ringraziar­ti. Non importa che tu esista o no, quello che conta è che io ci creda ancora. Ieri notte, la sera della vigilia, mentre con mia moglie mordevamo i biscotti che avevamo lasciato per te e bevevamo dal tuo bicchiere di latte, ho capito che la mia lettera devi averla letta, perché il mio desiderio di rivalsa, di riscatto e liberazion­e da un passato oscuro e violento, lo hai realizzato.

Grazie Babbo Natale.

PS Mia figlia questa mattina aveva gli occhi sgranati quando ha trovato i resti del tuo pasto magico. Non era interessat­a a scartare i regali che le hai lasciato. Mi ha chiesto di fare un giro per la casa e poi in giardino per vedere se c’eri ancora.

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