Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il brindisi in Kosovo costruendo la pace
Tra la fine del 1999 e l’inizio del 2000 nei luoghi in cui ci furono violenze e genocidi
Inverno 1999. Sono trascorsi 20 anni e le guerre nel cuore dell’Europa dell’Est appaiono un ricordo lontano. Eppure gli anni ’90 sono zona di confine fra l’utopia della dichiarazione universale dei diritti universali del ’48 e l’inizio delle nuove guerre dell’era globale: in altre parole, le violenze e i genocidi in nome di appartenenze etniche e religiose.
Inverno 1999. Sono trascorsi 20 anni e le guerre nel cuore dell’Europa dell’Est appaiono un ricordo lontano. Eppure gli anni ’90 sono zona di confine fra l’utopia della dichiarazione universale dei diritti universali del ’48 e l’inizio delle nuove guerre dell’era globale: in altre parole, le violenze e i genocidi in nome di appartenenze etniche e religiose. Le guerre in Croazia, Bosnia e Kosovo le ho vissute sul campo come antropologa e successivamente, come esperta delle Nazioni Unite e dell’IOM (organizzazione internazionale per le migrazioni) in Albania e Kosovo. Durante le feste natalizie del 1999 e nel gennaio 2000 ero a Pristina, nel primo inverno del “Kosovo liberato”. Ecco alcuni frammenti dei miei ricordi.
In Kosovo fa freddo, è il primo inverno dopo la guerra e la vecchia centrale a carbone, per quanto riattivata, non è sufficiente. Non c’è luce elettrica e le case non distrutte si tengono in piedi con pochi mattoni forati che lasciano passare il vento, l’umido, la neve. Se hai la necessità di continuare a vivere in quelle case capisci la difficoltà del vivere quotidiano di chi è rimasto. Ho freddo e non so come riscaldarmi nonostante il fermento, nella capitale Pristina, dove ogni giorno sorgono nuovi caffè, nuovi ristoranti. Il ristorante La Perla del Kosovo è stato aperto, appena finita la guerra, nell’estate del ’99. La fine della prima guerra umanitaria ha creato fra l’Albania e il Kosovo un continuo movimento, ma solo in una direzione: Ong, militari, faccendieri in cerca di piccole astuzie legate al business del post guerra hanno fiutato la necessità di spostarsi da un luogo all’altro. Pristina in poco tempo “sottrae” a Tirana non solo esperti in progetti umanitari: il fiume di danaro sull’emergenza, transitato in Albania nei tre mesi di guerra, si sposta velocemente.
L’emergenza è ormai altrove e la costellazione umanitaria e militare si posiziona su un altro territorio. Insieme alla Perla del Kosovo si mettono in piedi, in pochi mesi, strutture abitative, scuole, uffici per poter accogliere militari e civili dell’umanitario, della Umnik (Missione ad interim delle Nazioni Unite in Kosovo) e della Kfor (forza militare internazionale guidata dalla Nato, per ristabilire l’ordine e la pace).
Il vecchio albergo, una volta adibito nei sotterranei anche a camera
di tortura, ha un generatore che funziona a tratti, le porte delle camere non chiudono, i corridoi bui e sporchi attraggono poco gli “internazionali”. Fa caldo e fa freddo, non c’è luce o ce n’è troppa: il vivere quotidiano del dopo conflitto, della risoluzione Onu 1244, svela stili di vita profondamente asimmetrici. I fuori strada salgono e scendono dalle colline intorno a Pristina; i logo delle diverse organizzazioni e i badge, indispensabili per circolare, fanno parte del landscape umanitario. Tutti sembrano dover correre: l’urgenza impone comportamenti frettolosi. La popolazione del Kosovo che rientra, o che non è mai partita, ha voglia invece di raccontare, di farsi ascoltare, per poter ricostruire, se mai possibile, una nuova normalità.
Alcuni mesi dopo la fine del conflitto, Eqrem Basha apre una libreria sul corso principale di Pristina: le tinte pastello predominanti creano un ambiente molto diverso dall’urbanesimo post-comunista e post-conflitto dei Balcani. È un luogo d’incontro non diverso da quelli che potresti vivere a Parigi o a Berlino. Eqrem ha un’aria dolce e timida, ama parlarti del suo paese ma anche di letteratura, del suo lavoro di poeta ma anche di traduttore di molti scrittori europei. Esqrem è un giornalista e critico d’arte. Prima di essere licenziato, durante l’epoca di Milosevic era responsabile di una trasmissione alla radio e alla tivù in lingua albanese. È nato in Macedonia, ha il doppio passaporto e per questo ha cercato di portare in salvo la sua famiglia all’inizio del conflitto nel marzo ‘99. Il suo racconto di quei mesi si articola su due scenari diversi: la fuga e la sopravvivenza. Il racconto della fuga rocambolesca, dopo che la sua famiglia era stata respinta alla frontiera poiché non tutti nati in Macedonia, è sottolineato da un sentimento di angoscia e di vergogna che permane nella sua memoria. Nella fuga, dopo due giorni senza cibo, si avvicina ad un casolare abbandonato. Dai vetri vede dei sacchi di farina e allora, disperato (mi sottolinea la parola disperato più volte) rompe un vetro, entra nella casa e con quella farina improvvisa un pasto. Mi dice abbassando gli occhi: «Gli uomini, nel pericolo, diventano predatori». E allora, per comunicare una diversa immagine, incomincia un altro racconto: messa in salvo la sua famiglia in Macedonia, decide di ritornare in Kosovo. Si barrica nel suo appartamento di Pristina, chiude tutte le persiane in modo da non far penetrare la luce, come se la casa fosse stata abbandonata da tempo. Ma il pericolo è al piano terra del palazzo, con la presenza permanente delle milizie paramilitari serbe. Un accerchiamento che lo terrorizza: a volte suonano con insistenza alla sua porta. Eppure, in piena notte, alcuni passi lo svegliano. Guarda dallo spioncino e vede del cibo lasciato in terra: dunque c’è è chi sa, tace e decide di aiutarlo. Forse una famiglia serba con cui aveva sempre avuto buoni rapporti nello stabile? Non lo saprà mai, poiché quella famiglia è scomparsa alla fine del conflitto. Psicologicamente era difficile, se non impossibile reggere a quella tensione; per distrarsi, per controllare la paura, decide allora di incominciare a tradurre un libro che aveva sempre amato. Ride, dicendomi «l’ho tradotto senza alcun permesso, l’ho tradotto senza pagare i diritti di autore. Vedi, rubo in una casa, rubo i diritti di autore… quindi contribuisco all’immagine che gli occidentali hanno di noi non è vero?» Un libro cosi complesso tradotto in tre mesi, il primo libro della sua casa editrice pubblicato dopo il conflitto. «Razza e Storia di Claude Lévi-Strauss, un libro emblematico», mi sussurra e finalmente ride di nuovo. E me ne regala subito una copia. Quel libro dal 2000 ha un posto privilegiato nella mia libreria a Montreal ed è molto più di un ricordo. È il mio passaggio nel terzo millennio.
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La vita che cambia
La popolazione che rientra, o che non è mai partita, ha voglia di raccontare, di farsi ascoltare, per poter ricostruire, se mai possibile, una nuova normalità
” Lo scaffale della libertà Alcuni mesi dopo la fine del conflitto, Eqrem Basha apre una libreria sul corso principale di Pristina, un luogo d’incontro come quelli di Parigi o Berlino