Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Quando sul palco del San Carlo comparve un leone
Il San Carlo al centro di una polemica sul web, con intervento difensivo in prima persona della sovrintendente Purchia. L’oggetto è la presenza di un cane in palcoscenico nell’imminente Tosca. L’allestimento si annuncia fuori tradizione (scene di Palladino, regia di De Angelis) e il cane previsto non è fortunatamente il tenore, come si potrebbe banalmente ironizzare, ma un vero pitt bull. Dovrebbe averlo con sé il barone Scarpia per sottolineare la ferocia del personaggio, come se non la svelasse a sufficienza il tema musicale creato da Puccini, che addirittura apre l’opera.
Ma non è questa inutile forzatura che preoccupa, bensì costringere un animale a dar spettacolo. Non sono infatti i melomani a protestare, ma gli animalisti. Cosa avrebbero mai detto e fatto nel 1957 i predecessori della categoria — sempre che avessero avuto a disposizione lo sversatoio dei social — quando sul palcoscenico del San Carlo comparve un leone? Si rappresentava il Nerone di Boito, opera non a caso di rara esecuzione, il cui atto conclusivo ha come scena l’arena ove si celebra il sacrificio dei Cristiani. Il regista era Herbert Graf, un tedesco tendente al colossal, che aveva chiesto di poter avere in scena una qualsiasi belva e Pasquale Di Costanzo, il mitico sovrintendente di quegli anni ne sposò l’idea e gli trovò addirittura un ex re della foresta finito nella gabbia di un circo, convinto della eccezionalità della presenza di una belva in un’opera lirica.
La cosa fece effettivamente sensazione, ne parlarono i giornali, ma non se ne giovò più di tanto il dramma di Boito, tornato ben presto in desuetudine. Non era del resto la prima volta che Di Costanzo si affidava a prodezze circensi, almeno nella sede estiva dell’Arena Flegrea, che negli anni ’50 ed oltre ospitò spettacoli memorabili. Per l’Aida inaugurale del 1952 , anche qui regista Herbert Kraf, la celebre marcia trionfale accompagnò una sfilata delle truppe di Radames fuori dal comune con trofei, carri e le ceste col bottino di guerra sul groppone di un elefante. Di cani si trattò in epoca più recente con un grande regista del nostro tempo, Franco Zeffirelli, che aveva già avuto problemi alla Scala per un asinello preteso come indispensabile nei Pagliacci di Leoncavallo. Era il 1996 e il San Carlo accoglieva la sua Boheme, produzione tra le più significative del Novecento. La scena d’assieme del Cafe Momus prevedeva l’arrivo di Musetta e Alcindoro a bordo di un cocchio trainato da un cavallo. In più Zeffirelli voleva che Musetta avesse in grembo un piccolo cane da compagnia, che avrebbe consegnato e ripreso in una serie di gag con il suo protettore. La direzione fece presente al regista delle difficoltà relative al cane, che strapazzato di qui e di là avrebbe potuto abbaiare, ma quegli insisteva suggerendo da esperto cinofilo taluni espedienti per evitare quel pericolo. Finì tuttavia col cedere e rinunciare al cagnolino di Musetta. Ma non senza chiedere una compensazione: il raddoppio dei cavalli del cocchio. Un “tiro a due” avrebbe dato più significato al personaggio di Alcindoro, che come da libretto è un «Consigliere di Stato».
Infine, il proprio cagnolino, un minuscolo Chihuahua a nome Tosca, lo porta fisso con sé in scena il basso-buffo Bruno Praticò, quando interpreta il ruolo di Bartolo nel Barbiere di Siviglia. Il tutore di Rosina esce di casa, con Tosca al guinzaglio, per portarla a fare la pipì. Non so altrove, ma a Napoli (2008, Arena Flegrea, regista Riccardo Canessa) la fece per davvero. Il cagnolino minuscolo, la pipì poca, la cavea immensa, il pubblico non se ne accorse, anche perché intanto Bartolo cantava ottimamente la sua parte: «…le mie nozze con lei meglio è affrettare. Sì, dentr’oggi finir vo’ questo affare…».