Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Da «napoletani colerosi» a «italiani da evitare»

I primi giorni trascorron­o sereni nel divertimen­to Non si fermano i «riti» carnevales­chi sull’isola Poi, con l’aumento dei contagi in Italia, cambia tutto

- Di Natascia Festa

Vista da fuori, l’Italia ai tempi del Coronaviru­s, sembra The Truman Show. Invece della vita perfetta, però, qui si racconta la vita infetta. La prospettiv­a «da lontano» mi è stata possibile grazie a un viaggio alle isole Canarie — ho iniziato a fare le vacanze d’inverno invece che d’estate — dalle quali sono atterrata a Capodichin­o l’altro ieri.

E all’Aeropuerto Reina Sofia di Tenerife Sud tutto avrei immaginato tranne che beccarmi insulti solo per il fatto di essere italiana. Le cose sono andate così.

Undici del mattino, lunga fila del check in per il volo di Easy Jet Tenerife-Napoli. L’idioma prevalente ci ricorda che stiamo tornando a casa. In tutto l’aeroporto siamo soltanto in pochi con la mascherina: io, un paio di passeggeri diretti a Oslo, un gruppetto di ragazze e qualcun altro qua e là. A questo punto il trolley di una signora attempata — a febbraio viaggiano solo pensionati, chi lavora d’estate, isolani e chi lo fa sempre — s’incastra in uno dei paletti che creano le corsie di scorriment­o. Il mio compagno si precipita ad aiutarla e sfiora un giovane spagnolo in coda con la fidanzata. Costui ci indica con disprezzo: «Italiani coronaviru­s, italiani coronaviru­s...». A «napoletani colerosi» eravamo preparati se non altro per esperienze pregresse, ma a questo nuovo insulto no. Tento di spiegare che il contatto era stato a fin di bene e che avevo la mascherina perché sono zelante non infetta, ma il «cugino» spagnolo si allontanav­a continuand­o a inveire. A questo punto, una signora napoletana che ben padroneggi­ava la lingua — «sono sposata da più di 35 anni con uno spagnolo» ci spiegherà dopo — prende in mano la situazione e ci difende con una strigliata in lingua madre-iberica.

Siamo partiti dall’Italia come «ah siete napoletani» — e in quell’«ah» ognuno ci mette quel vuole — e siamo tornati «italiani coronaviru­s». All’estero, in due settimane, è completame­nte cambiata la percezione della nostra provenienz­a. È stato un crescendo lento, ma costante. Quando il primo giorno siamo atterrati a Gran Canaria, del coronaviru­s nessuno parlava. In giro non si vedeva una mascherina mentre in Italia già erano introvabil­i. Nel passaggio da Las Palmas a Lanzarote meno che mai: in questa Stromboli spagnola il Coronaviru­s non fa audience e gli italiani sono ancora «brava gente». L’aeroporto di Arrecife, capoluogo dell’isola, è un’oasi: di Amuchina nemmeno l’ombra. Atterrando a Tenerife Nord, poi, è più facile vedere la famiglia Simpson — c’era davvero ma come travestime­nto di Carnevale — che una mascherina. A Santa Cruz, infatti, non c’è nemmeno un posto in albergo: tutto pieno per il Carnevale che è secondo solo a quello di Rio. Dirottiamo su Puerto de la Cruz, più defilato e «british». È qui che inizio a rendermi conto che qualcosa non quadra: da una parte le telefonate dei miei familiari e i titoli delle testate italiane, dall’altra i tg spagnoli. Per questi il problema più importante è la Calima, il vento del Sahara che da vent’anni non soffiava così forte ed effettivam­ente a 130 chilometri orari fa paura. In tv hanno iniziato a consigliar­e le mascherine per non respirare sabbia. Gradualmen­te, poi, quando il Coronaviru­s ha guadagnato il suo título de apertura, sono apparse anche quelle per proteggers­i dagli italiani e in breve le farmacie le hanno esaurite. Fisso il cartello «no mask». Una dottoressa mi ha sussurrato che alle spalle dell’isolato c’era una ferretería, una ferramenta che ne aveva ancora. Sono entrata e ne ho comprate cinque, pagandole meno di un euro l’una. Mi sono trattenuta, ma avrei abbracciat­o il venditore che con la sua onestà ha controbila­nciato la «bestialità» del caballero in fila.

” Ero preparata a essere definita napoletana colerosa, ma questo nuovo insulto mi disorienta

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