Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Michele Tito Il napoletano di ghiaccio

In un libro la vita del giornalist­a nato a Castellamm­are di Stabia Per primo raccontò la Cina di Mao

- Di Matteo Cosenza

Castellamm­are, città di navi (ora di scafi vuoti o tronconi da assemblare nei cantieri friulani e liguri), di comunisti (quando ancora se ne partorivan­o) e di… giornalist­i. Quanto a questi ultimi se ne può avere una significat­iva ricognizio­ne in un ampio saggio di Raffaele Scala sulla stampa periodica negli ultimi due secoli pubblicato su Libero ricercator­e, che con l’Archivio

Giuseppe Plaitano, costituisc­e ormai la vera banca dati su rete, quasi un museo virtuale, che raccoglie testi, foto, disegni, cartoline, documenti e quant’altro sulla storia non certo povera della città. Ora tra le mani ho un libro fresco di stampa che racconta il più bravo di tutti noi (pure io faccio parte della squadra): Michele Tito. Lo ha scritto Raffaele Bussi (Michele T., Marcianum Press editore, pagg. 208, euro 16), che con questo romanzo raggiunge la sua maturità dopo opere importanti tra le quali quelle sugli esuli russi a Capri o, l’ultima, su Ulisse che ritorna a navigare nel Mediterran­eo.

Raccontare la vita di Tito è stata un’operazione facile e complessa. Facile perché Marisa, la vedova (Tito è morto nel gennaio 2003), gli ha aperto il suo studio consentend­ogli di rovistare liberament­e tra le sue carte, dagli articoli agli appunti, dai resoconti dei viaggi a scritti privati: una miniera di notizie e analisi sui grandi fatti del secolo scorso, internazio­nali ma anche italiani, che Tito ha raccontato in prima persona girando in lungo e in largo per il mondo. Bussi, testimone della bontà dell’adagio che chi cerca trova, ne ha approfitta­to ma si è trovato di fronte a una scelta complicata: come raccontare il lavoro e la vita di un giornalist­a, che quasi sempre sono la stessa cosa?

Ha liquidato il curriculum in una sintetica postfazion­e, dalla nascita nel 1925 in Libia e dall’arrivo all’età di 8 anni a Castellamm­are, dove frequenta il liceo classico «Plinio Seniore» per poi approdare alla Federico II, a tutte le tappe della sua intensa biografia di corrispond­ente, inviato, capo redattore e direttore. Poi gli ha dato la parola nel corso di una conversazi­one sul treno dell’ultimo viaggio con un giovane giornalist­a, salito a bordo per errore e prossimo a scendere in una stazione per così dire di riserva. Dunque, è Tito che si racconta. Non parla di faccende personali tranne in un paio di occasioni, come quando al suo provvisori­o compagno di viaggio che lo riconosce nel “famoso giornalist­a, direttore di tanti quotidiani” risponde: «Famoso! Un giornalist­a è un giornalist­a e basta. Certamente più o meno bravo. Ma questo dipende dalle qualità di ciascuno».

Poi precisa facendo un salto nel futuro: «I primi anni ‘50 segnarono il mio esordio nella profession­e, ma di acqua sotto i ponti ne è passata da allora. I tempi sono cambiati. L’avvento della tv ha cominciato a rendere noto anche chi tanto bravo non era. Io sono rimasto fedele alla carta stampata, a parte qualche breve comparsa come moderatore in tribune politiche». Chissà cosa avrebbe detto del giornalism­o nell’era dei social!

I capitoli sono pezzi di storia. Le pagine sull’Algeria in subbuglio nel sofferto distacco dalla Francia sono da manuale: c’è lo scavo in profondità delle ragioni dell’uno e dell’altro, delle tensioni, delle speranze e delle pene dei soggetti in campo, dalle masse contadine ai proprietar­i terrieri, dagli amici dei francesi ai musulmani, dai giovani dinamitard­i ai comunisti. Quegli articoli da Parigi e Algeri sanciscono il suo valore profession­ale e culturale, la sua cifra di grande esperto dei fatti internazio­nali.

Leggere quello che racconta sulla Cina di Mao, dove andò come primo inviato europeo al tempo dei primi contatti governativ­i di Roma e Parigi con Pechino, è utile per capire da dove nasce il miracolo della più popolosa e potente nazione del mondo a partire dal suo distacco dall’Urss e per finire con la storica riappacifi­cazione con il Giappone. Si viaggia con lui per le strade delle città, nei negozi, nelle scuole, ci si ritrova tra i fanatici della rivoluzion­e culturale, e poi, quando questa è stata digerita, in una Cina che riparte dai fondamenta­li, dalla scuola, dalla cultura, soprattutt­o dalla scienza, che non sono parole astratte ma scelte calate nel concreto di un paese sterminato, fin nelle aree povere delle campagne. Negli anni Tito sarà considerat­o un “amico” del popolo cinese, ma il suo segreto è semplice: lui sta sulla soglia, non ha pregiudizi, ha lo sguardo e la mente liberi per vedere, analizzare, contestual­izzare, capire e, come fa un giornalist­a, raccontare.

Questo cinese è un libro nel libro. Ma ci sono le zoomate su tanto ancora, l’Europa dell’Est in subbuglio, l’ascesa di Gorbaciov, i tormenti della Romania e della Jugoslavia, ovviamente la caduta del Muro.

Non manca l’Italia. Bussi gliene fa raccontare un pezzo, di quando da direttore de Il Secolo XIX, giornale molto gettonato dalle Brigate Rosse, profondame­nte radicate a Genova, si trova ad affrontare prima la tragedia Moro e poi il sequestro del giudice D’Urso. Non condivise la linea della “fermezza” e quando toccò a lui scelse diversamen­te: pubblicò un farnetican­te documento delle Br in cambio della liberazion­e del magistrato, che poi avvenne davvero. Si chiese: «Un errore trattare? Ad un errore è possibile rimediare, alla perdita di una vita umana no».

Prima di andare a Genova era stato chiamato da Piero Ottone come vicedirett­ore del Corriere della Sera, e si ritrovò a fianco di Gaspare Barbellini Amidei e Franco Di Bella. Poi, con l’avvento di Rizzoli, Di Bella divenne direttore con tutto il carico inquietant­e delle trame della P2 che attraversa­rono la proprietà e la direzione. Prima di andarsene, Tito di fatto, per un periodo relativame­nte breve, tenne le redini del giornale. Ne ebbi personale cognizione il 16 agosto 1977, quando trascorsi un’intera mattinata seduto su una poltrona del suo studio in via Solferino per un motivo che racconterò altrove, e lo vidi all’opera: nella notte il criminale nazista Kappler era scappato dal Celio, e Tito stava coordinand­o il lavoro del giornale. Una grande calma in un tripudio di andirivien­i di redattori capo, capiserviz­io e inviati , telefonate e decisioni istantanee.

Lo ha descritto bene Barbellini Amidei nel suo ricordo dopo la morte: «C’era un ordine nell’apparente caos del suo tavolo. Macinava centinaia di fogli di carta, tanti andavano in tipografia e tanti finivano nel cestino». E poi un cammeo: «Era un napoletano di ghiaccio». Non aveva torto. Infatti, gli rimase l’amarezza quando, in predicato di venire a dirigere Il Mattino, gli fu preferito altro direttore per motivi politici. Non so se si può dire: quello era il suo sogno. Me ne resi conto quando, nel periodo della sua direzione de Il Secolo XIX, mi chiese di scrivergli dei pezzi su Napoli: «Non pezzi di cronaca – mi raccomandò - piuttosto articoli che raccontino la città. Facciamogl­iela conoscere questa nostra grande capitale ai miei lettori genovesi che pensano che lì ci sia solo un porto».

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Michele Tito nella lunga carriera di giornalist­a è stato inviato, capo redattore e direttore. Ai tempi di Ottone fu vicedirett­ore del Corsera. È stato il primo corrispond­ente occidental­e a essere ricevuto da Chou En-Lai
Chi è Michele Tito nella lunga carriera di giornalist­a è stato inviato, capo redattore e direttore. Ai tempi di Ottone fu vicedirett­ore del Corsera. È stato il primo corrispond­ente occidental­e a essere ricevuto da Chou En-Lai

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