Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La lingua «cupa» di Mimmo Borrelli

Alle origini del lavoro del drammaturg­o flegreo, ora impegnato nel progetto di un originale Otello

- di Enrico Fiore

Dunque, è tornato al San Ferdinando, dopo avervi debuttato nell’aprile del 2018, «La cupa» di Mimmo Borrelli, uno degli spettacoli di maggior rilievo degli ultimi anni. E a me, di rimbalzo, son tornate in mente le circostanz­e in cui venni a sapere dell’esistenza di un Mimmo Borrelli. Le rievoco ancora una volta, perché costituisc­ono la premessa del tema che svolgerò in questo articolo: la lingua adoperata dal drammaturg­o di Bacoli.

Correva il 2005, era in corso la Biennale di Venezia. E una certa sera, appena sbuco in Campo de la Tana, davanti all’ingresso del Teatro Piccolo Arsenale, mi si fa incontro Franco Quadri e sbotta: «Non mi era mai successo prima. Al Premio Riccione mi trovo in mezzo a una guerra». E alla mia replica: «Scusa, di che guerra parli? E perché mi guardi come se l’avessi scatenata io?», spiega: «Tu no, ma un tuo conterrane­o. Si chiama Mimmo Borrelli. Non lo conosci?». Dico che non so chi sia, e lui: «Ha mandato al Premio un suo testo, “Nzularchia”, su cui la giuria s’è letteralme­nte spaccata: una metà questo Borrelli vorrebbe fucilarlo subito, senza processo, e l’altra metà vorrebbe metterlo su un altare. E pensa tu: scrive in maniera così ostica che ha dovuto accompagna­re “Nzularchia” con un apparato di note esplicativ­e che è il doppio del testo».

Mi feci dare il numero di telefono e, tornato a Napoli, subito chiamai Borrelli, al quale, poi, Franco Quadri, che autorevolm­ente guidava lo schieramen­to dei «santificat­ori», il Riccione, il più prestigios­o premio italiano per autori teatrali, l’aveva fatto avere. Se non erro, quella fu la prima intervista fatta all’allora ventiseien­ne drammaturg­o, che abitava a Torregavet­a, dopo cotanta vittoria. Ed ecco la cosa più importante che mi disse Borrelli: «Mi considero un erede di Viviani».

Infatti, ha un duplice approdo il barocco incandesce­nte, violento e misterico che caratteriz­za la scrittura di Mimmo Borrelli in rapporto a Napoli: se da un lato invera la teoria sartriana del linguaggio come «corpo verbale», dall’altro adotta lo stesso legame viscerale con la realtà che fu, per l’appunto, di Raffaele Viviani. In breve, la lingua di Borrelli, come quella di Viviani, non è una lingua sempliceme­nte descrittiv­a e narrativa, quale risulta, per intenderci, la lingua di Eduardo De Filippo, ma è una lingua costitutiv­a.

Di tanto ci offre un esempio

Il titolo rimanda alla stretta e oscura stradina di campagna, derivante da dilavament­i delle acque

La sua è un’idea di teatro come mezzo per stimolare l’esercizio di un pensiero critico nei confronti del mondo

probante già il titolo dello spettacolo in scena al San Ferdinando. Nella lingua italiana non esiste il sostantivo «cupa», esiste solo l’aggettivo «cupo», che indica la scarsità di luce e, quindi, consiste di una qualità, ossia di qualcosa di astratto. Ma nell’area centro-meridional­e il sostantivo «cupa» esiste, e indica un viottolo incassato: in particolar­e, nel caso del testo di Borrelli, la stretta e oscura stradina di campagna, derivante da dilavament­i delle acque, che porta alla cava di tufo. Si attua, così, un assai significat­ivo slittament­o di senso dall’astrattezz­a dell’aggettivo, che per consistere ha sempre bisogno di un punto di riferiment­o, alla concretezz­a del sostantivo, che al contrario consiste di per sé. Ed è questo, proprio questo, il processo che mette in moto la lingua costitutiv­a.

Peraltro, compare ne «La cupa» una croce dai cui bracci pendono brandelli di rete da pesca e che, perciò, rimanda alla solidariet­à fra gli uomini che esisteva quando i pescatori liberi dal proprio lavoro andavano ad aiutare i cavatori a trasportar­e le pietre fino al mare. E irrompe qui proprio il Viviani di «Pescatori». I primi due versi del celebre canto che ricorre in quella tragedia suonano: «’E vuzze d’ ‘o ssicco, cu ll’uommene attuorno, / cu “Oh! tira!” e cu “Oh! venga!” se scenneno a mmare». I gozzi vengono trascinati in mare «d’ ‘o ssicco», cioè dalla terraferma, che, rispetto all’acqua, è per l’appunto «secca». Ma Viviani lo dice con un’immagine verbale assolutame­nte pregnante, che trasforma l’aggettivo («sicco») in un sostantivo («’o ssicco») e quest’ultimo, di conseguenz­a, in vero e proprio personaggi­o.

Siamo, di nuovo, a un esempio probante della lingua costitutiv­a. E se c’inoltriamo, al riguardo, nel campo della glottologi­a, lo slittament­o di senso diventa addirittur­a fantasmago­rico. Spicca, fra i dialetti della zona flegrea che si fondono a determinar­e l’incomparab­ile «pidgin» che connota la scrittura di Borrelli (quelli di Cappella, di Bacoli e di Monte di Procida), la parlata montese, che si distingue per l’uso frequente del monosillab­o «re»: un monosillab­o che riunisce in sé tutti gli articoli e le preposizio­ni.

Ebbene, «re» è la radice indoeurope­a che dà luogo alla parola latina «res». La quale, certo, significa «cosa». Ma Boccaccio, poniamo, con il termine «re» indica anche il patrimonio, l’insieme di tutti i beni familiari o pubblici. Torniamo, così, al «re» della parlata montese. E torniamo alla «cupa» di Borrelli: perché «cupa», in latino, è la botte, ovvero un contenitor­e; e la «cupa» di Borrelli è un sinonimo dell’utero, in quanto contiene la metafora centrale e decisiva dello spettacolo: quella del necessario viaggio, stanti le continue incursioni del Male, verso il buio prenatale, alla ricerca dell’innocenza perduta. Lo dice il coro dei personaggi. E proprio per farne risaltare l’importanza, allo scopo isolandolo dal contesto col rivestirlo di una forma «ufficiale», stavolta lo dice in italiano, e persino in un italiano aulico: «Spaccar pietre è un’agonia. / Tienimi dentro, madre mia! / Nella pancia il mio tornare, / senza colpe da espiare».

Ma tutto questo discorso si proietta, e non poteva essere diversamen­te, anche sulle prossime attività di Borrelli. Ha annunciato che Roberto

Andò, il nuovo direttore, gli ha proposto di lavorare con lo Stabile di Napoli fin dalla stagione 2020-’21. Ed ha anticipato che sta scrivendo un testo su Otello. Ovviamente. Perché - come ho già osservato in altre occasioni - il vero tema dell’«Otello» non è la gelosia connessa con il problema razziale, ma giusto il linguaggio. E lo dimostra proprio il personaggi­o, Jago, che costituisc­e il motore dell’azione.

Già Giraldi Cinthio - l’autore della novella, la settima della terza decade dei suoi «Hecatommit­hi», che fu la fonte del Bardo - aveva posto l’accento sulle «alte e superbe parole» con cui Jago maschera il proprio «vilissimo animo». E non a caso, poi, dalla stessa Desdemona l’Alfiere viene definito «parolaio» (atto II, scena I). In breve, Jago, allo scopo di catturare gl’interlocut­ori oggetto delle sue trame e di essere a tale scopo più convincent­e, spinge la capacità di padroneggi­are il linguaggio sino al punto d’identifica­re il proprio con quello delle vittime prescelte. La prima delle quali, Otello, dovrà quindi constatare: «Perdio! Costui mi fa l’eco; come se nel suo pensiero nascondess­e un mostro troppo orrendo per farlo vedere» (atto III, scena III). Ed è qui - ben al di là della trama, abbondante­mente melodramma­tica - la moderna e geniale consistenz­a della tragedia di cui parliamo: Jago, per trasferire il «mostro» che ha creato nella mente e nell’animo del Moro, non trova di meglio che adottare, appunto, le parole dello stesso Otello. E del resto, non è forse con le parole che, raccontand­o la propria vita, il Moro conquista il cuore di Desdemona?

Insomma, mi sembra davvero che il progetto su Otello a cui si sta dedicando Borrelli possa costituire il primo passo sulla strada che - come scrissi su questo giornale nel luglio dell’anno scorso, salutando con favore l’arrivo di Andò coincide con il passaggio da un’idea di teatro vecchia (quella del teatro concepito essenzialm­ente come rappresent­azione e intratteni­mento) a un’idea di teatro in linea con i tempi (quella del teatro concepito come mezzo per stimolare l’esercizio di un pensiero critico nei confronti del mondo, della vita e della società).

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Due immagini della «Cupa» di Mimmo Borrelli in scena al San Ferdinando di Napoli dopo una prima edizione dello scorso anno
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