Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Dalla Sanità in scena al Mercadante I ragazzi che si ribellano al virus
Il laboratorio curato dalla compagnia Putéca Celidònia nell’ambito di Quartieri di vita, Festival di teatro sociale diretto da Cappuccio
Andare in scena ai tempi del coronavirus per i bambini della Sanità è una passeggiata. Dal rione al Ridotto del Mercadante, Amuchina nello zainetto, starnuti nel gomito e una vitalità inarrestabile. Per fortuna. Perché se Napoli non è una posto per giovani, sono i bambini a reinventare la città a misura loro. Almeno sul palcoscenico. È quello che accade in Non c’è differenza tra me e il mondo, in scena stasera alle 19. La pièce è il punto di arrivo di un laboratorio curato dalla compagnia Putéca Celidònia nell’ambito di Quartieri di vita, il Festival di teatro sociale diretto da Ruggero Cappuccio e realizzato dalla Fondazione Campania dei Festival. Il testo è di Emanuele D’Errico, nipote di Lucio, imprenditore ucciso dalla camorra nel 1993 per essersi rifiutato di pagare il racket. Alla sua memoria è dedicato il bene confiscato a un boss della Sanità, oggi sede della compagnia e del progetto Opportunity che fa capo al fratello Davide.
«In questi giorni di prove — racconta Emanuele — le madri dei nostri bambini erano in ansia. Prova generale, tutti insieme, poi il teatro, il pubblico... come si fa? Ci chiedevano. Le abbiamo rassicurate: basta essere prudenti, mettere in atto le precauzioni e continuare a fare del nostro meglio. Finché non ci saranno disposizioni regionali che restringano tempi e modi del nostro lavoro, noi andiamo avanti».
Lo spettacolo prende abbrivo da uno smemoramento: si riparte da zero, a ogni persona è data la possibilità di riscrivere il copione della propria vita. «Il protagonista — continua D’Errico — è un bambino che non ricorda più nulla di se stesso e delle sue origini. Completamente perso, incontra un insolito compagno di viaggio con il quale intraprende una ricerca per ritrovare pezzi di sé, della sua identità, del suo mondo».
I piccoli non sono solo interpreti ma hanno dato un contributo di inventio al testo: «Abbiamo lavorato sulle improvvisazioni. Esempio: un allievo che era stato alla Reggia di Caserta ha inventato la Seggia di Caserta, un museo fatto solo di sedie. Una ragazzina ha raccontato di Capadibomber, un compagno con la testa troppo grande rispetto al corpo». C’è un portato di questo quartiere di vita non semplice? «Il nostro metodo è stimolare la fantasia: non approfondire i problemi del reale ma esorcizzarli in un piano che non appartiene alla quotidianità. Durante le lezioni facciamo in modo che i bambini si raccontino, si liberino. E lo fanno, infatti, ma non usiamo questi “materiali”, non li strumentalizziamo. Obiettivo dello spettacolo è decidere di essere napoletano, non subirlo per nascita. E soprattutto decidere che tipo di napoletano si vuole diventare».
Il tutto in un luogo simbolico: «La nostra sede era proprietà di un boss che ha avuto 26 anni di carcere. Di fronte abita ancora la sua famiglia. Durante uno dei nostri laboratori, un ragazzino che avrà avuto circa undici anni, afferente a quella famiglia, è venuto a trovarci: “Mio nonno viveva qua”, ha detto. Posso venire a fare teatro con voi?». E l’avete preso? «Il corso era già avanzato, ma lo aspettiamo al prossimo».
A proposito di nonni, il suo ha una storia opposta, è stato ucciso dalla camorra: «Quando andarono a chiedergli il pizzo, disse ripetutamente no all’emissario e questo lo freddò nel suo capannone».
Putéca Celidònia è una compagnia giovane: «È nata nel 2018 dall’incontro di sei allievi della scuola dello Stabile. Con me ci sono Clara Bocchino, Marialuisa Diletta Bosso, Raimonda Maraviglia, Teresa Raiano, Dario Rea e Umberto Salvato». Perché questo nome? «Puteca, bottega in napoletano, deriva dal greco apothéke, composto da apò + tìthemi che significa “porre da parte”. La celidonia è una pianta spontanea delle zone abbandonate definita “infestante”. Anche questa dal greco chelidòn (rondine), perché viene strofinata dalle rondini sugli occhi non ancora aperti dei piccoli. Il lattice caustico aprirebbe i lembi di pelle consentendo ai rondinini di vedere». È così che sedici bambini della Sanità riaprono gli occhi sul mondo del possibile, il teatro.