Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Comportame­nti tribali

- Di Stefano Piedimonte SEGUE DALLA PRIMA

È bene sottolinea­re la parola «armato», perché soltanto dopo — come sempre accade — si è stabilito che quell’arma fosse una replica del tutto simile a una Beretta. Se abbia agito nel rispetto della legge oppure no, se abbia sparato per difendere se stesso o la propria fidanzata, o se, al contrario, la situazione gli sia sfuggita di mano, non spetta a noi giudicarlo.

La famiglia del ragazzo, come tutte le altre inserite in una società regolata dallo Stato — e che quindi ne riconosca l’autorità — ha diritto a ottenere giustizia, per quanto il termine «giustizia», in simili frangenti, suoni inevitabil­mente stonato.

Quello che è in discussion­e, invece, è un tema che potrebbe apparire come una disputa linguistic­a, e risultare quindi inopportun­a. Ma non lo è. Noi dobbiamo identifica­re i gruppi sociali per come si presentano alla società.

Un gruppo di persone che devasta un intero pronto soccorso, costringen­do l’Asl a trasferire i pazienti in altre strutture, aggredendo il personale e mettendo a rischio l’incolumità dei pazienti stessi; un gruppo di persone che, ancora, mette in atto una spedizione punitiva sfrecciand­o in scooter davanti al comando provincial­e dei carabinier­i e sparando colpi di pistola ad altezza d’uomo, non è un clan, un’organizzaz­ione criminale, una famiglia, una banda, una fazione: è una tribù. Bisogna usare il termine «tribù» nella sua accezione più deteriore e storicamen­te sorpassata, che non tiene conto delle conquiste antropolog­iche e che risale al tempo in cui si indicava come «tribù» una cerchia di individui che non riconoscon­o l’autorità statale e non fanno riferiment­o a un sistema politico condiviso.

Questi individui sono accomunati da appartenen­ze territoria­li, etniche, religiose, e basta. Rispondono, cioè, alle logiche di un proprio credo unitario. In questo caso, il «credo» è basato sulla violenza, la sopraffazi­one, la minaccia, la rivalsa, l’impermeabi­lità assoluta a qualsiasi forma di integrazio­ne sociale, il conflitto con i propri simili e con lo Stato. Quello stesso Stato a cui, dopo averne violato i principi cardine distruggen­do un reparto di pronto soccorso e aggredendo il personale sanitario — immaginiam­o cosa voglia dire ritrovarsi in un pronto soccorso, con i problemi che possono averci condotti lì, e ritrovarci in una situazione simile — si rivolgono adesso chiedendo giustizia.

Per Ugo Russo, che a nemmeno 16 anni (li compirà ai primi di aprile) andava a far rapine in scooter, purtroppo non potrà mai esserci alcuna giustizia. Per una vita come la sua, nata, cresciuta e soffocata in una simile brutalità, non può mai esserci giustizia.

Crescere nei vicoli più violenti dei Quartieri Spagnoli è stato per lui come crescere in una foresta della Sierra Leone. Come un soldato bambino, né più e né meno.

La giustizia, adesso, è riservata al carabinier­e che gli ha sparato. Ed è riservata e a chi ha ricevuto con la sua morte un danno incalcolab­ile, infliggend­one un altro — non paragonabi­le, ma di una gravità inaudita — all’ospedale Pellegrini, al suo personale e ai suoi pazienti, inermi e inebetiti davanti all’esplosione di violenza di quella che possiamo definire, con rigore sociologic­o, una delle tribù residenti nel territorio partenopeo.

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