Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Comportamenti tribali
È bene sottolineare la parola «armato», perché soltanto dopo — come sempre accade — si è stabilito che quell’arma fosse una replica del tutto simile a una Beretta. Se abbia agito nel rispetto della legge oppure no, se abbia sparato per difendere se stesso o la propria fidanzata, o se, al contrario, la situazione gli sia sfuggita di mano, non spetta a noi giudicarlo.
La famiglia del ragazzo, come tutte le altre inserite in una società regolata dallo Stato — e che quindi ne riconosca l’autorità — ha diritto a ottenere giustizia, per quanto il termine «giustizia», in simili frangenti, suoni inevitabilmente stonato.
Quello che è in discussione, invece, è un tema che potrebbe apparire come una disputa linguistica, e risultare quindi inopportuna. Ma non lo è. Noi dobbiamo identificare i gruppi sociali per come si presentano alla società.
Un gruppo di persone che devasta un intero pronto soccorso, costringendo l’Asl a trasferire i pazienti in altre strutture, aggredendo il personale e mettendo a rischio l’incolumità dei pazienti stessi; un gruppo di persone che, ancora, mette in atto una spedizione punitiva sfrecciando in scooter davanti al comando provinciale dei carabinieri e sparando colpi di pistola ad altezza d’uomo, non è un clan, un’organizzazione criminale, una famiglia, una banda, una fazione: è una tribù. Bisogna usare il termine «tribù» nella sua accezione più deteriore e storicamente sorpassata, che non tiene conto delle conquiste antropologiche e che risale al tempo in cui si indicava come «tribù» una cerchia di individui che non riconoscono l’autorità statale e non fanno riferimento a un sistema politico condiviso.
Questi individui sono accomunati da appartenenze territoriali, etniche, religiose, e basta. Rispondono, cioè, alle logiche di un proprio credo unitario. In questo caso, il «credo» è basato sulla violenza, la sopraffazione, la minaccia, la rivalsa, l’impermeabilità assoluta a qualsiasi forma di integrazione sociale, il conflitto con i propri simili e con lo Stato. Quello stesso Stato a cui, dopo averne violato i principi cardine distruggendo un reparto di pronto soccorso e aggredendo il personale sanitario — immaginiamo cosa voglia dire ritrovarsi in un pronto soccorso, con i problemi che possono averci condotti lì, e ritrovarci in una situazione simile — si rivolgono adesso chiedendo giustizia.
Per Ugo Russo, che a nemmeno 16 anni (li compirà ai primi di aprile) andava a far rapine in scooter, purtroppo non potrà mai esserci alcuna giustizia. Per una vita come la sua, nata, cresciuta e soffocata in una simile brutalità, non può mai esserci giustizia.
Crescere nei vicoli più violenti dei Quartieri Spagnoli è stato per lui come crescere in una foresta della Sierra Leone. Come un soldato bambino, né più e né meno.
La giustizia, adesso, è riservata al carabiniere che gli ha sparato. Ed è riservata e a chi ha ricevuto con la sua morte un danno incalcolabile, infliggendone un altro — non paragonabile, ma di una gravità inaudita — all’ospedale Pellegrini, al suo personale e ai suoi pazienti, inermi e inebetiti davanti all’esplosione di violenza di quella che possiamo definire, con rigore sociologico, una delle tribù residenti nel territorio partenopeo.