Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Caro Saviano, è la cultura della violenza che ha ucciso Ugo
Qualche giorno fa Roberto Saviano ha dedicato a Napoli un’accorata omelia celebrando su Repubblica il funerale di Ugo Russo, il rapinatore ragazzino morto sotto i colpi del carabiniere in borghese al quale, pistola giocattolo alla mano, aveva tentato di strappare un orologio.
Da alcuni anni lo scrittore sotto scorta è il napoletanologo più in voga in Italia e all’estero. Se si verifica un disastro spettacolare o se c’è un morto in terra non dei soliti, prima o poi aspettatevi un suo racconto. Ogni brutta storia napoletana diventerà in un modo o nell’altro la sua storia. Una storia da copertina di cui si parlerà in giro. Un’altra delle storie di Gomorra. Se pure, come è ora il caso di Ugo, non si tratterebbe di Gomorra in senso stretto.
Qui infatti non si vede la scena dei cattivi che alimentano il male e lo riproducono per sete di guadagno con ferino spirito imprenditoriale, né quella dei buoni che si affannano per porre qualche argine e cercare qualcosa di meglio. Ugo — così Saviano su Repubblica — sarebbe una figura intermedia, sospesa nel limbo, un bambino «travestito da cattivo». Ed è forse perciò che lo scrittore di successo appare in questo caso così spaesato da rifugiarsi nella vecchia narrazione delle due Napoli, una accanto e sopra all’altra, in un conflitto permanente tra mondi indistricabili. Commosso per il tragico destino di Ugo al quale è stata tolta ogni speranza, come tanti intellettuali prima di lui, finisce per prendersela genericamente con la scuola, la poca scuola incontrata dai ragazzini smarriti per le strade malfamate della città.
Per uno come Saviano, sempre attento a distinguere la sua cupa narrazione dalle lagne edulcorate dei letterati napoletani in voga nel passato, un’analisi del genere è quasi una resa. Ora non c’è chi vorrebbe negare il grave problema della dispersione scolastica, così come tutti converrebbero sulla necessità di offrire maggiori opportunità formative a chi non ne potrà trovare altrove. Eppure, sia la teoria delle due città, sia l’antidoto della conoscenza contro il male appaiono idee usurate, un po’ retoriche e inutili per comprendere le mille facce della metropoli postmoderna. Che la scuola possa produrre sapere e dunque inclusione sociale per quelli come Ugo è un concetto astratto, retaggio di una cultura idealistica che suppone di trasformare la realtà sbagliata in una rappresentazione esatta con molto lavoro di anime pie. Come se le persone, se non tutte almeno i ragazzini, fossero recipienti sterili da riempire a piacimento. A Napoli come a New York e in qualsiasi altra metropoli contemporanea, invece, è facile accorgersi che pezzi interi di società (madri, padri, zii, nonni, figli, nipoti) pensano, vivono e si riproducono fuori dalle regole che noi crediamo universali. Ma non per questo difettano di codici propri.
Chi ha scritto Gomorra e vive da anni sulle fortune della serie televisiva, prodotti multimediali con una forte e originale caratterizzazione estetica, non può non sapere che la diversità violenta di certi quartieri è di per sé un dato culturale e non un fatto di natura. Cultura per esempio è il linguaggio che parlano, i vestiti che indossano, la musica che ascoltano i ragazzini come Ugo. Cattiva cultura che mescola l’alto e il basso, lo sporco e il pulito, il ricco e il povero. La conoscenza e i valori distorti sono quelli della strada che arriva fin nelle case di molte, troppe famiglie napoletane. Se anche la scuola pubblica avesse senso (ma finanche la borghesia ha smesso di crederci spedendo i propri rampolli a studiare in luoghi sempre più remoti), non potrebbe competere in velocità e capacità seduttive con tutto ciò che nel mondo reale stimola la fantasia e i desideri di conoscenza di chi è affamato di vita. Ugo ha impugnato una pistola per arraffare soldi in fretta, noncurante della persona che minacciava; i suoi amici e parenti hanno sfasciato un ospedale e circondato una caserma con la medesima sfacciata arroganza. Non è istinto, non è disperazione. È quello che sanno fare. È il loro codice. Così comunicano tra loro e con noi. E perciò nessuno di essi è innocente.
Assurdo pensare che comportamenti di tale violenza si possano anche solo in parte giustificare perché la vittima si è travestita da cattivo e c’è stata una tragedia. La morte di un ragazzo di soli quindici anni mette tristezza. Certo. Ma qui la scuola non c’entra. Le due Napoli non c’entrano. Neanche il lavoro che è poco. O le infrastrutture che non decollano. Quelli come Ugo agiscono secondo la loro coscienza e le loro conoscenze. E diciamo le cose come stanno: noi non abbiamo piacere d’incrociarli per strada. Cerchiamo di evitarli. Quando succede, nel bene e nel male, siamo costretti a guardarli negli occhi, per schivarli o per capirci qualcosa. Insomma per fare un’esperienza gestibile in qualche modo.
Ecco che cosa si può dire a Saviano. Uno scrittore dovrebbe occuparsi dei fatti che accadono e degli individui in carne ed ossa, di ciò fanno, sanno e dicono di sé, e non delle informative degli inquirenti o viceversa dei resoconti buonisti delle associazioni militanti per poi ripetere teorie consumate dal tempo. Se la scrittura non può cambiare il mondo, almeno stia nel mondo, tra le persone reali, dove le cose accadono tra contraddizioni infinite, dove è difficile discernere il bene dal male e si gioca semplicemente, umanamente a sopravvivere.