Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il teatro è autoreferenziale, se ne può fare a meno Brook e Koltès insegnano che la vita è altrove
La mia sarà una spiegazione articolata, nel senso che si dividerà fra constatazioni d’ordine pratico, addirittura ovvie, e riflessioni d’ordine teorico, meno ovvie per il semplice motivo che i teatranti d’oggi preferiscono, generalmente, non condividerle.
Le constatazioni d’ordine pratico discendono dal fatto che io — essendo un comunista non pentito e un marxista nonostante tutto ancora osservante — so (e dovrebbero saperlo anche quanti non sono e non sono mai stati comunisti e marxisti) che è la struttura, ovvero l’economia, che influenza la sovrastruttura, ovvero l’insieme delle attività afferenti l’esercizio del pensiero e la creazione artistica in particolare. Non può mai accadere il contrario. E basti, al riguardo, l’affermazione di un nero africano in un documentario girato molti anni fa nell’ambito di quello che allora si chiamò «cinema verità». Disse quel nero: «Quando si ha fame, non si dipingono quadri».
Qualche teatrante ha dichiarato di non capire perché sia stata decretata la chiusura dei teatri e non, poniamo, dei centri commerciali e dei supermercati. Ed è, palesemente, una dichiarazione essa sì incomprensibile, oltre che francamente inaccettabile. La decisione di chiudere i teatri e non i centri commerciali e i supermercati è stata presa perché, appunto, la fame, che costituisce uno stimolo «strutturale», non può fare a meno di vincere sul bisogno di cultura, che costituisce uno stimolo «sovrastrutturale», per giunta, oggi, piuttosto aleatorio e, come ognuno può rilevare, assai poco diffuso.
È come se quei teatranti avessero detto — estremizzo, s’intende — che non capiscono perché sia stata decretata la chiusura dei teatri e non dei reparti ospedalieri in cui si tenta di contrastare l’avanzata del virus, a costo dei sacrifici di medici e infermieri che ogni giorno mettono in gioco la propria vita. Siamo seri, per favore. Poiché mi sembra che proprio nell’invito alla serietà possano riassumersi le raccomandazioni fatte dal Capo dello Stato nel suo messaggio televisivo al Paese. Occorre anteporre all’interesse individuale, pur rispettabilissimo, l’interesse generale, che in questo momento — dico cose persino superflue — attiene al bene concreto e decisivo che è la salute.
Del resto — ne parlavo ieri con Vincenzo Salemme, costretto a rinunciare alle repliche del suo spettacolo programmate al Diana — è un autentico non senso consentire ai teatri di restare aperti a patto che garantiscano la distanza di almeno un metro fra uno spettatore e l’altro. Se, mettiamo, la larghezza di una poltrona è di mezzo metro, significa che intorno a uno spettatore dovrebbero essere lasciate vuote due poltrone alla sua destra, due poltrone alla sua sinistra, due poltrone dietro di lui e due poltrone davanti a lui. In tutto fanno otto poltrone vuote per una sola poltrona occupata. Ciò che — dato che il tutto esaurito da noi è quasi sempre una chimera — equivarrebbe sic et simpliciter alla chiusura di fatto dei teatri.
Peraltro, la decisione presa da talune sale di restare aperte vendendo solo una parte dei biglietti per i posti che hanno a disposizione appare — dato che quelle sale risultano spesso semivuote e talvolta vuote del tutto — come un puro esibizionismo, nella migliore delle ipotesi riconducibile a un’ormai insopportabile mistica del teatro. E qui, abbandonando il terreno delle constatazioni d’ordine pratico, vengo alle riflessioni d’ordine teorico.
Il teatro, oggi, è ridotto a un piccolo mondo autoreferenziale che s’illude d’essere un grande mondo, anzi il mondo tout court. Ma occorrerebbe ricordarsi del monito lanciato da quello che viene considerato il più grande regista vivente, Peter Brook.
L’ho già scritto e lo riscrivo.
Nel maggio del 1989, quando a Taormina gli fu assegnato il Premio Europa per il Teatro, assistetti a un incontro fra Brook e una foltissima platea di giovani. E lui subito li gelò: «Io non amo il teatro». Ma altrettanto rapidamente si affrettò a spiegare, raccontando come avesse reagito con un pianto disperato allorché, bambino, fu portato per la prima volta a teatro e, dietro il sipario dipinto con mille disegni fantasmagorici, trovò una terrificante assenza di movimento. E poi il grande regista aggiunse: «È importante non amare quello che si sta facendo, perché solo il contatto con una realtà sentita come insopportabile può costringere a guardare oltre e a superarne le vuote forme e le convenzioni».
Invece, molti, troppi teatranti di oggi sono convinti (lo si evince dalle interviste che rilasciano) di essere dei geni e di partorire immancabilmente capolavori, dinanzi ai quali tocca agli spettatori (normali o di professione che siano) l’unico dovere d’inchinarsi, accogliendoli come un dono munifico. Il risultato, si capisce, è la messe cospicua di spettacoli assolutamente inutili che dilaga dai palcoscenici. Ed è a questo tipo di teatro che mi riferivo quando ho detto che si può vivere senza il teatro. Si può vivere, cioè, senza il teatro con l’iniziale minuscola, che è l’esatto contrario del Teatro con l’iniziale maiuscola a cui si riferisce più volte, nel suo messaggio, l’amico Mastroianni.
Insomma, forse varrebbe la pena, per molti teatranti, di scoprire (o di riscoprire) l’acutissimo e indiscutibilissimo paradosso di uno dei massimi fra loro, Bernard-Marie Koltès: «Il teatro non mi è mai piaciuto molto, perché è evidentemente il contrario della vita: eppure ci torno sempre, e mi attira proprio perché è il solo posto nel quale si ammette subito che la vita è altrove».
”Le contromisure
È un autentico non senso consentire alle strutture di restare aperte a patto che garantiscano la distanza di almeno un metro fra uno spettatore e l’altro Otto poltrone vuote per una occupata
L’equivoco
Molti, troppi protagonisti di oggi sono convinti di essere dei geni e di partorire immancabilmente capolavori, dinanzi ai quali tocca agli spettatori l’unico dovere d’inchinarsi e accoglierli