Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Empatia L’antivirus
Donise: «Covid-19, qui al Sud abbiamo sentito la sofferenza del Nord e siamo stati solidali»
Professoressa Anna Donise, lei è docente di filosofia morale alla Federico II e autrice del saggio Critica della ragione empatica edito da Il Mulino. Vediamo se della sua ricca disamina abbiamo afferrato una delle basi: l’empatia è a monte e la simpatia a valle?
«L’empatia è un nostro modo di conoscere il mondo, è ciò che ci consente di sentire l’altro, il suo stato emotivo, il suo essere triste, arrabbiato, allegro. Questo sentire può determinare reazioni simpatetiche, ma anche generare antipatia. Quindi direi che è vero che l’empatia viene prima della simpatia, ma nel senso che l’empatia è una condizione necessaria, ma non sufficiente, perché vi sia simpatia».
Tempi grami di coronavirus: al netto delle grettezze sui social, si può affermare che gli italiani del Sud abbiano empatizzato con la sofferenza degli italiani del Nord?
«Mi pare che ci sia stata grandissima empatia. Anzi direi che le reazioni all’epidemia ci offrono un’interessante casistica di diversi strati o modi dell’empatia. Nel libro sostengo che al livello più originario delle relazioni c’è una forma di contagio empatico: si tratta di un sentire che avvicina moltissimo l’altro a me, fino a rendere difficile distinguere la mia paura dalla sua. Nel contagio empatico è facile che dalla sofferenza dell’altro nasca una vera e propria ansia se non addirittura una forma di panico. Ma in questo tipo di reazioni in realtà l’altro scompare: la paura diventa paura per me stesso o per i miei cari. Se riusciamo a non farci travolgere dalla paura possiamo anche concentrarci sull’altro. Con risultati diversi: da un lato compassione, simpatia e preoccupazione ma dall’altro anche astio e risentimento. Mi spiego: abbiamo simpatizzato tutti con gli eroici medici di Lodi, con i pazienti abitanti di Codogno o con Niccolò, il 17enne trattenuto a lungo in Cina. Però la sofferenza non sempre genera reazioni simpatetiche soprattutto quando c’è di mezzo un “noi” che deve essere protetto da un “loro”. C’è chi ha cercato di colpevolizzare i cinesi. Qualcuno ha addirittura detto che mangiano i topi vivi! E chi per paura del contagio diventa barbaro e inumano. Insomma, si può sentire la sofferenza altrui e reagire senza nessuna simpatia».
Un sorriso può essere un atto di affabilità ma può anche essere il sorriso di Joker. Come rispondiamo a queste due differenti ‘richieste’?
«Il corpo dell’altro è il campo espressivo dei suoi vissuti: il sorriso, le lacrime, arrossire o sgranare gli occhi sono espressioni che ci dicono ciò che sta provando l’altro. Se l’altro sorride dolcemente è come mi richiedesse a livello inconscio una forma di vicinanza. Se invece il sorriso dell’altro è beffardo allora io avverto una distanza, sono infastidito e provo quella che Theodor Lipps – filosofo e psicologo assai importante per Freud – chiama
“empatia negativa”, che può generare disgusto e presa di distanza».
Non si sottrae al tema dei temi quando si parla di Napoli: la serie televisiva Gomorra. La sua riposta al quesito «è un cattivo esempio per i ragazzini?» pare sia: sì e no. Sì perché ritrovano prossimità nell’umanità dell’antieroe e no perché l’empatia della rappresentazione svanisce quando spegniamo la tv. È così?
«Il problema non è la serie Gomorra ma il contesto in cui crescono alcuni giovani napoletani (e non solo). La domanda era: come mai simpatizziamo con i modelli negativi, ovvero con i cattivi? E da qui, l’ulteriore questione: è diseducativa una serie che mi porta a provare simpatia per un camorrista o più in generale per un cattivo? La risposta è che azioni e sentimenti negativi, come l’odio, la vendetta, il risentimento, sono parte dell’uomo. Nel libro ho fatto l’esempio di Achille l’eroe greco che trascina il cadavere del suo nemico, Ettore, per nove giorni attaccato al suo carro. È una vendetta degna di un camorrista eppure milioni di ginnasiali si sono immedesimati e hanno amato Achille, senza per questo farne un modello di comportamento reale. Il vero problema, mi pare, è quando la realtà somiglia troppo alla tragedia e diventa difficile distinguere».
L’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama sdoganò la parola empatia in un suo celebre discorso. Così nella vulgata provare empatia è diventato sinonimo di ‘cosa buona’ anzi la più auspicabile delle cose. In effetti non è così. Lei cita il marchese de Sade, spietato edonista aguzzino, come un empatico di prim’ordine. Perché?
«Direi due cose: innanzitutto l’empatia è “una cosa buona”, ma come sono buoni la vista, l’udito o il tatto! Essere empatici significa essere capaci di sentire le emozioni che ci circondano. Commuoverci per un amico o, anche, appassionarci alle vicende dei personaggi di film e romanzi. Questo ‘sentire’ può però anche essere uno strumento per farli soffrire. Cito il marchese de Sade perché il sadico è colui che conosce l’interiorità dell’altro, sa quali tasti toccare per infliggere sofferenza. In alcuni casi il “sapere” sulle emozioni dell’altro che viene dall’empatia, può essere usato per colpirlo e per fargli più male».