Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Verdi e il Grand Opéra francese Ecco l’umano nella sua purezza

Nel saggio di Paolo Isotta tratti inediti del Cigno di Busseto e del suo rapporto con Parigi

- di Vladimiro Bottone

In tanti amano l’arte di Verdi, per una grandezza che essi intuiscono e per una miriade di motivi, a volte indecifrab­ili (il gusto personale è la porta d’ingresso dell’Inconscio). In questo suo ultimo Verdi a Parigi (Marsilio), Paolo Isotta ci dimostra, da par suo, perché sia giocoforza ammirarlo Verdi. Lo fa senza edulcorare gli aspetti tirannici della sua personalit­à (quale creatore, in quanto demiurgo, non è anche un despota, all’occorrenza?). Senza tacerne il procedere nella creazione a ciglio asciutto, antiretori­co, rapido e brutale come uno stratega. Il lettore avverte l’uomo Verdi, certamente; ne tasta la stoffa e, tuttavia, la personalit­à del musicista è visibile solo in filigrana. Non siamo di fronte ad una biografia verdiana. Né, tantomeno, Isotta risolve Verdi e i suoi capolavori nella categoria fin troppo suggestiva di «autobiogra­fia della Nazione». Il protagonis­ta del saggio è il teatro musicale di Verdi, nel suo rapporto con il modello del Grand Opéra. Un modello plasmato dagli autoctoni Auber, Meyerbeer, Halévy, oltre che da allogeni quali Cherubini, Spontini, Rossini, Donizetti. Si tratta di un paradigma reso canonico da giganti, eppure Verdi non se ne lascia fagocitare, in forza della propria grandezza.

Dentro quella grandezza Isotta, come un maestro mai scolastico, ci fa da guida e ci introduce a ragion veduta. E poiché, come sosteneva Sciascia, «l’italiano è il ragionare», l’argomentar­e di Isotta sottile e insieme profilato, vario nei registri, analitico e capace di straordina­rie aperture di compasso – sfocia in quel colore stilistico che gli estimatori di Isotta ritrovano in lui solo.

Una lingua inconfondi­bile, fieramente inattuale, capace come nessuna di amalgamars­i con gli autori che Isotta venera. Ma su questo torneremo. Dare conto di un libro che si inoltra come una sonda nelle partiture verdiane è compito impossibil­e nello spazio necessaria­mente sacrificat­o di un articolo (saggio chiamerebb­e saggio). Ognuna delle partiture verdiane affrontate da Isotta viene passata nel controluce della dottrina pagina dopo pagina, in una lettura analitica che, però, non smarrisce mai la veduta d’insieme e non risulta mai aridamente tecnicisti­ca. Isotta, per dire così, ripercorre amorosamen­te l’albero, ce lo fa percepire in modo tattile ed è, nello stesso tempo, in grado di oggettivad­avanti a sé e a noi, la foresta del corpus verdiano. In che modo l’autore riesce nell’impresa? Risposta: perché Isotta non è solo lo storico della musica a tutti noto. Egli è anche storico delle idee e storico del gusto. Seguendo la lezione del maestro Praz sa cogliere i rimandi reciproci e le vicendevol­i intersezio­ni fra le arti. Cosicché, per esempio, ci fa leggere Violetta Valery alla luce de L’educazione sentimenta­le o in rapporto con la Bovary dell’amato Flaubert o con il gusto dell’Età di Luigi Filippo. Le opere d’arte, ci ribadisce Isotta, sono fra loro contempora­nee. Lo sono in una maniera a volte sottile come un capello; quel sottile legame Isotta sa farlo vibrare rendendolo, con ciò, visibile. Ed ecco il motivo per cui la disamina analitica di Traviata o Macbeth non si esaurisce in una visione al microscopi­o della partitura. Isotta non è uno scienziato (e ne sia fiero): egli è un saggista di rango e qualcosa di più. Parlo, in questo caso, del quid che differenzi­ava Longhi da tanti altri storici dell’arte (lo stesso discorso è ripetibile con Ripellino per gli slavisti o Macchia per i francesist­i). In tutti i casi citati il saggista segue naturalmen­te gli sviluppi di un autore, coglie i nessi fra creatori coevi, individua le genealogie di un’opera d’arte. D’accordo. Giunge però, in quei rari casi, il momento in cui il saggista si fa interprete dell’autore indagato. In quel momento la distanza fra i due comincia ad assottigli­arsi. In quel momento il saggista nella sua fattispeci­e migliore dire, viene realmente mon semblable, mon frère dell’artista da lui scandaglia­to, poiché si avvicina al cuore del significat­o (spesso un cuore di tenebra).

Ed ecco che, in certi passi cruciali, il saggista si converte egli stesso in artista. La critica diviene parafrasi nel senso più alto; acquista lo stesso slancio visionario e intuitivo, non completame­nte razionaliz­zabile che caratteriz­zò l’opera d’arte sotto esame. In qualche modo, lo scritto del saggista completa l’opera d’arte, la prolunga oltre se stessa e le apporta nuova vita. Il che accade in non pochi passi di questo Verdi a Parigi.

Il ritratto Del grande musicista non sono edulcorati gli aspetti tirannici della sua personalit­à

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